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L'argomento proposto vuole offrire materia di riflessione su
due temi, che possono anche porsi in perfetta antitesi fra loro: la società che
cambia e il magistrato.
Da un lato viene considerata la società intesa come unione
ordinata e regolamentata di persone che vivono in un ambito territoriale (e,
quindi, per noi la società italiana), la quale è per sua stessa natura una
entità in continua evoluzione: essa si trasforma, a volte sensibilmente e a
volte insensibilmente, in modo quotidiano, dando luogo a ciò che, nel termine
più comprensivo, viene definito come l'evoluzione perenne del costume.
Dall'altro abbiamo la figura del magistrato: egli altro non è
che un dipendente dello Stato, al quale è affidato lo specialissimo compito di
applicare le leggi, che quella società si dà attraverso le proprie istituzioni,
in un momento di squisita delicatezza del loro operare: il momento contenzioso.
Per ciò stesso, il magistrato non dovrebbe essere una realtà sul cui mutamento
ci si debba interrogare: egli è un semplice riflesso della legge che è chiamato
ad applicare. Se questa cambia, anch'egli dovrebbe cambiare; se questa rimane
immutata, anch'egli dovrebbe mantenersi uguale a se stesso, quali che siano le
metamorfosi della società che lo avvolge.
In questa accezione, il tema proposto potrebbe anche apparire
una contraddizione in termini. Esso però trae le mosse da una diversa chiave di
lettura del ruolo del magistrato, che si è venuta sempre più affermando a
partire dalla metà degli anni '60 e che vuole, esaltando il potere di
interpretazione della legge, tracciare un nuovo rapporto tra tale ruolo ed il
divenire della società.
Partendo dalle premesse, cioè, che non sempre la legge è in
sintonia coll'evolversi del costume ma spesso, troppo spesso, si attarda e si
sclerotizza, si è sostenuto che il magistrato può - pur rimanendo identica la
lettera della norma - utilizzare quello fra i suoi significati che meglio si
attaglia al momento contingente.
Una diversità di ruolo che non può non rifrangersi nel suo
stesso protagonista: il nuovo rapporto cercato fra magistrato e norma
legislativa comporta infatti di necessità che anche il primo esca dalla propria
torre eburnea di immutabilità, di ibernazione sociale, divenendo attento,
sensibile a quanto accanto a lui si crea, si trasforma, si perde.
Ecco, dunque, che i termini del tema propostoci non sono più in
inconciliabile antitesi: le due realtà, società e magistrato, sono su un
identico piano evolutivo e bene si comprende e si giustifica l'interrogativo
sugli effetti che tale parallelismo può avere prodotto, sulla positività o
negatività di questa esperienza che si è voluta vivere e, conseguentemente,
sulla persistente conducenza del mezzo che si è scelto rispetto al fine che si
voleva originariamente conseguire.
Il tema è di amplissimo respiro e di difficile risolubilità,
soprattutto perché il fenomeno al quale implicitamente si riallaccia è tuttora
in atto. Assolutamente pretenzioso sarebbe quindi credere di poterne affrontare
la disamina da parte di chi parla; anche perché la disamina stessa implica
conoscenze, soprattutto sul piano della macro e microsociologia, che esulano del
tutto dalla sua esperienza culturale.
Poiché, però, il dibattito sul ridetto tema è ogni giorno
riproposto dai mezzi di comunicazione di massa ed innumerevoli sono gli episodi
reali che lo impongono all'attenzione della pubblica opinione, è facile
presumere che ciascuno di coloro che hanno la bontà di ascoltarlo rechi con sé
dei quesiti che gradirebbe poter rivolgere ad un addetto ai lavori.
R questo il taglio che sembra ideale per questo incontro e
quanto adesso brevemente sarà detto avrà il solo scopo di richiamare alla
memoria quelle tematiche che più di altre hanno costituito motivo di pubbliche
polemiche e di fungere quindi da stimolo per le domande, le contestazioni che si
vorranno porre.
Le tematiche sulle quali ci intratterrerno sono le seguenti:
- i rapporti tra il magistrato ed il mondo dell'economia e del lavoro;
- i rapporti tra il magistrato e la sfera del "politico";
- l'aspetto della c.d. "immagine esterna" del magistrato;
- il problema della responsabilità del magistrato.
1. - I RAPPORTI TRA IL MAGISTRATO E IL MONDO DELL'ECONOMIA E
DEL LAVORO
La situazione economica italiana dell'ultimo decennio ha
risentito in maniera notevole delle due crisi dei prodotti petroliferi
(1973/1974 -1979/80) e della persistenza dei fenomeni terroristici e di
instabilità politica. Ad essi si è aggiunta nello scorcio del 1980 una calamità
naturale, quale il disastroso terremoto che ha colpito le regioni meridionali
del paese ed in particolare la Campania, la quale ha creato particolari
problematiche socio-economiche, con gravi riflessi anche sul piano della
repressione penale e dell'ordine pubblico.
Il mercato del lavoro e l'economia monetaria sono stati settori
nei quali le perturbazioni economiche hanno prodotto i loro maggiori effetti. Il
tasso di disoccupazione è andato man mano crescendo, soprattutto a partire dal
1973-74, giungendo a sfiorare nel 1981 il tetto dei due milioni di disoccupati
(8,4% delle forze di lavoro), con progressione continua a partire soprattutto
dal 1976 (tasso di disoccupazione 6% delle forze di lavoro).
In questo quadro, indubbiamente difficile, si è inserito
prepotente il dilemma fra la figura del giudice-garante degli interessi forti
(per i quali vengono assunti a base i valori industriali dominanti) ed il
giudice-garante degli interessi deboli (cioè degli interessi individuali contro
l'eccessiva concentrazione del potere economico).
Dilemma che nasce dalla convinzione che la presenza giudiziaria
possa esplicarsi in modo incisivo in contrasto colla congiuntura economica e al
fine di sanarne in tutto o in parte gli effetti perversi.
Nell'ansimare dell'apparato esecutivo alla ricerca di politiche
economiche idonee a sciogliere quel nodo congiunturale ormai sospetto di
cronicità, v'è stato chi ha ritenuto che il magistrato possa far buon uso del
suo potere interpretativo delle leggi, accogliendo di esse quell'accezione che
privilegiasse gli interessi delle classi economiche dominanti, così consentendo
alle stesse, svincolate da quei "lacci e lacciuoli", come ebbe a definirli Guido
Carli, di riprendere quella padronanza nel campo dell'iniziativa privata e
quella sicurezza nel settore degli investimenti produttivi, che avevano
consentito all'imprenditoria italiana di creare il c.d. "miracolo economico"
degli anni '50. Una linea, quindi, rivendicativa per il magistrato di un ruolo
di protagonista occulto, indiretto della macroeconomia nazionale. Una tesi che
relegherebbe il Montesquieu ed il suo principio sulla separazione dei poteri
davvero in una polverosa soffitta e che farebbe inorridire economisti classici
come Ricardo o Keynes.
Per contro, v'è stato chi, rigettando il ruolo di
"canalizzatore" dei processi economici, ha caldeggiato quella presenza
giudiziaria come elemento correttivo delle conseguenze nefaste che la
congiuntura ha sui piccoli soggetti economici.
È la tesi di chi ha voluto il magistrato come difensore delle
categorie più povere e, come tali, più esposte ai capricci dell'inflazione e
della stagflazione, proponendo l'aula giudiziaria come luogo di necessario,
di dovuto riequilibrio fra parte sociale forte e parte sociale debole
ed individuando il processo del lavoro come l'arena più allettante per tale
tenzone.
Per esemplificare quanto si dice, basterà citare il noto caso
del pretore Paone, che, per ovviare ad una crisi di alloggi, ricorse al
sequestro di immobili.
Sul punto quello che si può osservare è:
1° - che entrambe le prospettazioni sono senz'altro da
rifiutare in quanto il ruolo che vogliono prefigurare è tale che il magistrato,
che dovrebbe assumerlo, non sarebbe più tale in quanto imprimerebbe a se stesso
ed ai propri compiti dei caratteri e delle finalità totalmente estranei a quello
che ancora oggi è il prototipo dell'interprete giudiziario nel comune sentire
sociale come figura super partes e tali da far seriamente pensare ad un
vero e proprio tradimento nei riguardi di quei valori la cui tutela la nostra
Carta costituzionale affida al giudice ben diverso che essa implicitamente
teorizza;
2° - che è peraltro da fugare il timore, purtroppo diffuso, che
queste spinte innovatrici siano largamente radicate nei giudici civili e,
soprattutto, nella magistratura del lavoro; timore al quale si accompagna
l'altrettanto diffusa sgradevole sensazione che l'esito di una controversia
individuale o collettiva di lavoro non trovi la propria fonte nella legge ma
nelle simpatie del magistrato per questa o quella parte sociale. Vi sono
stati e vi sono casi che, col complice aiuto, a volte, di un distorto uso dei
mezzi di informazione, inducono a comprendere come possano essersi formati quel
timore e quella sensazione; ma va rigettata recisamente la tendenza ad una
generalizzazione indiscriminata e va soprattutto con calore affermato che la
maggioranza degli interpreti del diritto nel nostro paese piega ancora le
proprie convinzioni alla legge e non questa a quelle.
Troppo si è esagerato sulla giurisprudenza del lavoro,
giudicata come decisamente di una sola parte del rapporto. Una recente ricerca
effettuata per conto del Ministero di grazia e giustizia, a cura del Centro
nazionale di prevenzione e difesa sociale, alla quale hanno preso parte docenti
di diversa estrazione ideologica, ha clamorosamente smentito simili
affermazioni.
L'indice di vittoria su cause decise con sentenza in primo
grado nell'intero territorio italiano è risultato pari al 64,5%. Tale indice nei
giudizi di appello scende al 29,7% quando appellante è il lavoratore ed al 43,1%
quando appellante è il datore di lavoro.
La ricerca dimostra, nel complesso, un atteggiamento della
magistratura del lavoro, anche in sede di legittimità, tutt'altro che
"squilibrato" o "destabilizzante". Del resto, già una precedente ricerca,
condotta nel 1976 dal prof. Mengoni presso l'Istituto giuridico dell'Università
Cattolica di Milano, dimostrò l'infondatezza dell'immagine del giudice del
lavoro come giudice di assalto velleitariamente affetto da protagonismo o
comunque di giudice prevenuto nei confronti di una sola delle parti del
conflitto industriale.
D'altronde, va anche rammentato che, a giustificazione di
talune decisioni, di taluni indirizzi "sorprendenti" o comunque tali da
suscitare perplessità, stanno dei motivi alla cui ricorrenza è del tutto
estraneo il magistrato, venendo essi in essere in un momento precedente a quello
in cui egli è chiamato a svolgere la sua funzione.
Ci si intende riferire:
a) in primo luogo a leggi che di per sé sono chiaramente
alteratrici di un equilibrio nella posizione delle controparti rispetto
all'organo giudiziario: favor del lavoratore, tutela differenziata in
sede processuale e spinte assistenzialistiche non sono invenzioni della
giurisprudenza, ma precise scelte di politica legislativa. Che tali scelte siano
giuste od ingiuste è problema che in questa sede non rileva: ciò che preme è il
sottolineare che molto spesso si fa carico ai magistrati di "scelte di campo"
alle quali egli si trova vincolato proprio per quell'ossequio alla legge che da
lui si pretende;
b) in secondo luogo alle difficoltà interpretative del
linguaggio oscuro delle norme che il patrio legislatore oggi emana nella materia
con notevole fecondità e, soprattutto, dello strumento principe, oggi, nella
regolamentazione dei rapporti di lavoro: il contratto collettivo.
La magistratura, per restare ancora fedele al dovere
costituzionale di fedeltà alla legge, altro non cerca, anche per evitare
ondeggiamenti, incertezze ed ulteriori ingiusti rimproveri, che di poter
disporre di dettati normativi coerenti, chiari, sicuramente intelligibili,
nonché di testi negoziali nei quali la posizione di diritto e di obbligo delle
parti non sia offuscata da una trama tormentata di sottili e complicate
espressioni verbali, che nascondono premesse politiche tutt'altro che chiare
anziché una precisa volontà che sostenga il precetto. Fin quando tutto questo
non sarà assicurato dal nostro legislatore e dalle parti sociali in sede di
contrattazione, sarà ineliminabile che il giudice di Pordenone ed il giudice di
Ragusa, con gli abissi di cultura e dei substrati territoriali, sociali ed
economici nei quali si trovano ad operare, cerchino di districarsi nella
perigliosa giungla di queste regolamentazioni adoperando dei machete
interpretativi tra loro dissimili o addirittura contraddittori.
2. - I RAPPORTI TRA IL MAGISTRATO E LA SFERA DEL "POLITICO"
È forse questo il settore più dolente, nel quale più si
impuntano le critiche e dal quale provengono i maggiori allarmi.
Il tema della politicizzazione dei giudici si inserisce a pieno
titolo nel dibattito sui problemi della giustizia e nell'analisi del rinnovato
rapporto tra il magistrato ed il tessuto sociale nella cui trama egli si
colloca. Tanto con riferimento all'atteggiamento che, talvolta, i giudici
avrebbero assunto, o potrebbero assumere, presentando all'opinione pubblica
l'immagine di una giustizia parziale, fiancheggiatrice del potere politico, di
un partito politico o di un gruppo di potere, pubblico o privato.
L'ipotesi concretizza evidentemente una violazione del criterio
costituzionale che, proprio per evitare ogni forma di strumentalizzazione della
giustizia, garantisce l'indipendenza personale dei singoli giudici, soggetti
esclusivamente alla legge (art. 101), nonché quella della magistratura nel suo
complesso, descrivendola come "ordine autonomo ed indipendente da ogni altro
potere" (art. 104).
Dal combinato disposto delle norme citate, si desume quindi che
il costituente ha voluto escludere ogni pericolo o sospetto di faziosità e di
settarismo dei giudici, sia nell'aspettativa di vantaggi personali o per il
timore di pregiudizio, sia in forza dell'interferenza di altri poteri dello
Stato nella funzione giudiziaria.
È alla luce di questi principi che deve essere valutata la
compatibilità tra la funzione del giudicare e l'adesione a partiti politici,
gruppi, associazioni.
La trasformazione del partito politico da centro di diffusione
ideologica a struttura associativa caratterizzata da sempre più rigidi vincoli
burocratici e gerarchici, sovente finalizzata alla gestione del potere, rende
oggi assai più difficile di quanto non fosse all'epoca della Costituente
ammettere la possibilità che un giudice possa conservarsi libero iscrivendosi ad
un partito politico.
Si dovrebbe ammettere che il giudice, nel momento in cui si
iscrive, fosse non solo affatto risoluto a non concedere assolutamente nulla al
partito come tale, nei casi in cui il partito ha un interesse, ma che anche i
suoi compagni di fede non si aspettassero assolutamente nulla da lui nel momento
in cui egli dovesse occuparsi di quei casi.
Parrebbe che, sul piano umano, ciò sarebbe troppo pretendere.
Che dire poi della possibilità per il giudice di entrare a far parte di sette od
associazioni che, se non sono segrete, mantengono tuttavia il più stretto
riserbo sui nomi degli aderenti ed avvolgono nelle nebbie di una indistinta
filantropia. le proprie finalità e i propri obiettivi?
Se sono già serie le ragioni di perplessità sulla adesione del
giudice ad un partito politico, queste ragioni appaiono centuplicate nella
partecipazione ad organizzazioni di fatto più o meno riservate o, comunque, non
facilmente accessibili al controllo dell'opinione pubblica, i cui aderenti
risultano fra loro legati da vincoli della cui intensità e natura nessuno è in
grado di giudicare e valutare.
Qui bisognerà proclamare, con assoluta chiarezza, che la norma
dell'art. 212 T.U.L.P.S., che sancisce l'immediata destituzione per tutti gli
impiegati pubblici che appartengano ad associazioni i cui soci sono vincolati
dal segreto, si applica anche ai magistrati, che ne sono anzi, logicamente,
insieme ai militari, i destinatari più diretti.
Ciò non significa certo sopprimere nell'uomo-giudice la
possibilità di formarsi una propria coscienza politica, di avere un proprio
convincimento su quelli che sono i temi fondamentali della nostra convivenza
sociale: nessuno può difatti contestare al giudice il diritto di ispirarsi,
nella valutazione dei fatti e nell'interpretazione di norme giuridiche, a
determinati modelli ideologici, che possono anche esattamente coincidere con
quelli professati da gruppi od associazioni politiche.
Essenziale è però che la decisione nasca da un processo
motivazionale autonomo e completo, come frutto di una propria personale
elaborazione, dettata dalla meditazione del caso concreto; non come il portato
della autocollocazione nell'area di questo o di quel gruppo politico o
sindacale, così da apparire come in tutto od in parte dipendente da quella
collocazione.
Piace qui riportare il VII canone del codice di condotta
adottato negli Stati Uniti per la disciplina professionale dell'ordine
giudiziario e forense e che testualmente sancisce il dovere del giudice di
"sottrarsi all'attività politica, inadatta al suo ruolo", astenendosi in
particolare dall' "assumere mansioni di leader o dal rivestire qualunque altra
carica in una organizzazione politica", nonché dal "tenere pubblicamente
discorsi per un'organizzazione politica o per un suo esponente o dall'appoggiare
un candidato ad una carica pubblica".
Una previsione deontologica fatta propria da una società
storicamente, economicamente, tecnologicamente più progredita della nostra, che
costituisce, per ciò, un conforto alla validità di quanto prima si è detto e che
dà l'ispirazione per trattare subito di un altro delicato aspetto: quello del
magistrato che, ad un certo punto della propria carriera, si candida ad una
elezione politica ed ottiene la carica.
Si potrebbe osservare che su questo non v'è nulla da eccepire:
egli è un cittadino come tutti gli altri ed in questo non farebbe che esercitare
un suo diritto costituzionalmente garantito. L'ordinamento, peraltro, prevede
che durante il periodo del mandato egli non svolga le sue funzioni giudiziarie.
Ma gravissimo è il problema che si pone allorquando tale mandato, per una causa
od un'altra, viene a cessare: infatti, un parlamentare, anche quando si tenga
rigorosamente nei limiti della legalità, assume inevitabilmente un complesso di
vincoli e di obblighi verso gli organi del partito, contrae legami ed amicizie
che raramente prescindono (non per cattiva volontà o desiderio di collusione, ma
per necessità delle cose) dallo scambio di reciproche e sia pur consentite
cortesie, dall'assunzione di impegni e obblighi che, appunto perché
galantuomini, si è tenuti ad onorare, si assoggetta infine ad un'abitudine di
disciplina (nei confronti delle varie gerarchie del partito e del gruppo
parlamentare) in contrasto con la libertà di giudizio e l'indipendenza di
decisione proprie del giudice, abitudine difficile da lasciare, anche perché,
tranne casi eccezionali, l'abbandono del seggio parlamentare non rompe i vincoli
di gratitudine e non distrugge il legame fiduciario fra il singolo e la
struttura.
D'altronde, anche ammesso che il magistrato-parlamentare sappia
riacquisire per intero la propria indipendenza dal partito, che ha rappresentato
al più alto livello, e spogliarsi di ogni animosità contro avversari politici
che possono averlo attaccato anche duramente, è inevitabile che l'opinione
pubblica, incline al sospetto e tutt'altro che propensa a credere alla
rescissione di simili vincoli, continui a considerarlo adepto di quel partito,
consorte o nemico di quegli uomini politici e di quanto rappresentano.
Per inevitabile conseguenza, l'utente della giustizia di uguale
militanza politica riterrà, poco importa se erroneamente, di avere valide
aspettative ad una decisione favorevole e ad un trattamento di riguardo, mentre
chi lo contrasta si crederà battuto in partenza ed addebiterà l'eventuale
sentenza sfavorevole non a propria responsabilità, ma agli obblighi politici ed
alla conseguente preordinata malafede del giudice, costretto a dare comunque
partita vinta al suo commilitone e partitante.
Sarebbe quindi sommamente opportuno che i giudici rinunciassero
a partecipare alle competizioni elettorali in veste di candidato o, qualora
ritengano che il seggio in Parlamento superi di molto in prestigio, potere ed
importanza l'ufficio del giudice, effettuassero una irrevocabile scelta,
bruciandosi tutti i vascelli alle spalle, con le dimissioni definitive
dall'ordine giudiziario.
Nel trattare quanto appena detto, si è fatto un rapido accenno
a quella che è l'importanza del modo col quale l'utente della giustizia guarda
colui che gestisce tale servizio; ciò ci dà il destro per trattare...
3. - L'ASPETTO DELLA C.D. "IMMAGINE ESTERNA" DEL MAGISTRATO
Si è bene detto che il giudice, oltre che essere deve
anche apparire indipendente, per significare che accanto ad un problema
di sostanza, certo preminente, ve n'è un altro, ineliminabile, di forma.
L'indipendenza del giudice, infatti, non è solo nella propria
coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua
capacità di sacrifizio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza,
nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità,
nella trasparenza della stia condotta anche fuori delle mura del suo ufficio,
nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita
sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad
iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni
desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per
le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione
ed il pericolo della interferenza; l'indipendenza del giudice è infine nella sua
credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in
ogni momento della sua attività.
Inevitabilmente, pertanto, è da rigettare l'affermazione
secondo la quale, una volta adempiuti con coscienza e scrupolo i propri doveri
professionali, il giudice non ha altri obblighi da rispettare nei confronti
della società e dello Stato e secondo la quale, quindi, il giudice della propria
vita privata possa fare, al pari di ogni altro cittadino, quello che vuole.
Una tesi del genere è, nella sua assolutezza, insostenibile.
Bisogna riconoscere che, quando l'art. 18 della legge sulle
guarentigie dice "che il magistrato non deve tenere in ufficio e fuori una
condotta che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui
deve godere", esprime un'esigenza reale.
La credibilità esterna della magistratura nel suo insieme ed in
ciascuno dei suoi componenti è un valore essenziale in uno Stato democratico,
oggi più di ieri. "Un giudice", dice il canone II del già richiamato codice
professionale degli U.S.A. "deve in ogni circostanza comportarsi in modo tale da
promuovere la fiducia del pubblico nell’integrità e nell'imparzialità
dell'ordine giudiziario".
Occorre allora fare un'altra distinzione tra ciò che attiene
alla vita strettamente personale e privata e ciò che riguarda la sua vita di
relazione, i rapporti coll'ambiente sociale nel quale egli vive.
Qui è importante che egli offra di se stesso l'immagine non di
una persona austera o severa o compresa del suo ruolo e della sua autorità o di
irraggiungibile rigore morale, ma di una persona seria, sì, di persona
equilibrata, sì, di persona responsabile pure; potrebbe aggiungersi, di persona
comprensiva ed umana, capace di condannare, ma anche di capire.
Solo se il giudice realizza in se stesso queste condizioni, la
società può accettare che gli abbia sugli altri un potere così grande come
quello che ha. Chi domanda giustizia deve poter credere che le sue ragioni
saranno ascoltate con attenzione e serietà; che il giudice potrà ricevere ed
assumere come se fossero sue e difendere davanti a chiunque. Solo se offre
questo tipo di disponibilità personale il cittadino potrà vincere la naturale
avversione a dover raccontare le cose proprie ad uno sconosciuto; potrà cioè
fidarsi del giudice e della giustizia dello Stato, accettando anche il rischio
di una risposta sfavorevole.
Un giudice siffatto è quello voluto dalla umanità di sempre,
configurato in ogni ordinamento dello Stato di diritto, esaltato nella Carta
costituzionale. Sotto questo aspetto, pertanto, può ben concludersi che non vi
può essere relazione alcuna fra l'immagine del magistrato e la società che
cambia, nel senso che la prima non dovrà subire modificazione alcuna, quali che
siano i capricci di costume della seconda: il giudice di ogni tempo deve essere
ed apparire libero ed indipendente, e tanto può essere ed apparire ove egli
stesso lo voglia e deve volerlo per essere degno della sua funzione e non
tradire il suo mandato.
4. - IL PROBLEMA DELLA RESPONSABILITÀ DEL MAGISTRATO
Quanto si è fin qui detto conduce a porre come argomento di
chiusura l'interrogativo se il mutato sentire sociale, se le trasformazioni
intervenute nel costume del nostro paese siano tali da imporre una nuova
struttura della responsabilità del magistrato, delle conseguenze cioè alle quali
quest'ultimo è suscettibile di andare incontro ove bene non eserciti la sua
funzione.
Il ventaglio dei problemi è vastissimo, ma pare cosa più
opportuna limitare il suggerimento, quale argomento di discussione per chi
ascolta, alla proposta di introdurre la responsabilità civile per danni arrecati
a terzi nell'esercizio di attività giudiziaria per colpa grave.
Sul punto si può osservare come contributo a tale discussione,
che l'introduzione del principio della responsabilità civile pare assolutamente
inaccettabile per molte ragioni, tutte difficilmente superabili.
Ogni atto giurisdizionale, anzi ogni manifestazione di potestà
giudiziaria, incide necessariamente su diritti soggettivi; è per sua stessa
natura idonea a produrre danno. E ciò vale non solo per le manifestazioni
tipiche di potestà decisionale, ma anche per tutti quei provvedimenti che hanno
funzione preparatoria ed ordinatoria rispetto alla decisione finale (concedere o
non concedere un sequestro; ammettere o non ammettere una prova; concedere o no
la provvisoria esecuzione).
Non esiste, si può dire, atto del giudice e più ancora del
pubblico ministero che possa dirsi indolore. Ogni giudice, quindi, nell'atto
stesso in cui si accingesse alla stipula di un qualsiasi provvedimento, non
potrebbe non domandarsi se per caso dal suo contenuto non gliene possa derivare
una causa per danni.
E sarebbe quindi inevitabile ch'egli si studiasse, più che di
fare un provvedimento giusto, di fare un provvedimento innocuo.
Come possa dirsi ancora indipendente un giudice che lavora
soprattutto per uscire indenne dalla propria attività, non è facile intendere.
Né si dica che le parti raramente ricorrerebbero a questa possibilità. La
facilità con cui, specialmente in certe regioni, si ricorre all'esposto contro
il giudice, anche per i più ingiustificati motivi, autorizza la previsione che
una riforma del genere aprirebbe subito un ampio contenzioso.
Se qualcuno volesse obiettare che, in fondo, la responsabilità
è prevista solo per le ipotesi di colpa grave, sarebbe facile rispondere che
questa limitazione introduce un elemento di aleatorietà in più, davvero
insufficiente ad offrire un criterio d'orientamento obiettivo. t difficile
trovare dei casi di colpa giudiziaria che non possano considerarsi gravi: la
motivazione stereotipa; l'omessa convalida della perquisizione in flagranza;
l'omesso esame di prove risultanti dagli atti; la mancata motivazione su
specifici capi delle domande ecc., sono tutte mancanze gravi. La colpa del
giudice, se c'è, è sempre grave per definizione, data dall'importanza degli
interessi sui quali egli dispone.
L'altro effetto perverso, che potrebbe essere indotto dalla
riforma, sarebbe quello di indurre il giudice al più rigido conformismo
interpretativo: per cautelarsi contro il pericolo di seccature, è semplice
prevedere che il giudice si guarderebbe bene dal tentare vie interpretative
inesplorate e percorrerebbe sempre la strada maestra fornita dalla
giurisprudenza maggioritaria della Cassazione; l'autorità del precedente, che è
vincolo professionale per il magistrato anglosassone, diventerebbe per quello
italiano fatto d'interesse personale e l'art. 101 della Costituzione potrebbe
essere riscritto nel senso che i giudici sono soggetti soltanto alla Corte di
Cassazione.
Quando poi la controversia toccasse affari od interessi di
dimensioni eccezionali, ogni scelta diverrebbe veramente paralizzante: si pensi
alla decisione di un tribunale fallimentare se far fallire o no un grosso
complesso industriale od una catena di società legata magari a centri di potere
politico.
Il giudice veramente verrebbe consegnato nelle mani delle forze
che si scontrano fra loro e sarebbe difficile ch'egli non fosse tentato, se non
è riuscito a fuggire prima di dover scegliere, di secondare il più forte.
Ma gli effetti più devastanti di una proposta del genere si
avrebbero in materia penale, specialmente nel momento dell'inizio dell'azione
penale.
Se l'organo dell'accusa sa che le sue iniziative investigative
possono costargli, quando non ne seguisse una condanna, una causa per danni, ci
si può chiedere se sarà mai più possibile trovare un pretore od un pubblico
ministero che di sua iniziativa intraprenda la persecuzione di quei reati che
per tradizione o per costume o per altro nel passato erano raramente perseguiti.
Dai reati societari all'urbanistica, all'inquinamento ed in genere a tutti i
reati che offendono interessi diffusi.
Ci si può chiedere ancora se si troverà un giudice che, in
presenza di un reato che consente ma non impone la cattura, avrà l'ardire di
imprigionare, ad esempio, un bancarottiere per qualche miliardo, quando rifletta
alle conseguenze che gliene potrebbero derivare se, per caso, costui venisse
assolto.
Questo è l'effetto perverso fondamentale che può annidarsi
nella proposta di responsabilizzare civilmente il giudice: essa punisce l'azione
e premia l'inazione, l'inerzia, l'indifferenza professionale. Chi ne trarrebbe
beneficio sono proprio quelle categorie sociali che, avendo fino a pochi anni or
sono goduto dell'omertà di un sistema di ricerca e di denuncia del reato che
assicurava loro posizioni di netto privilegio, recupererebbero attraverso questa
indiretta ma ancor più pesante forma di intimidazione del giudice la sostanziale
garanzia della propria impunità.
Tutto ciò che si è riusciti a conquistare sul terreno di una
più effettiva valenza del principio dell'uguaglianza di tutti i cittadini
dinanzi alla legge, verrebbe vanificato di colpo e le condizioni della nostra
giustizia penale sarebbero retrocesse in un istante all'epoca dello Statuto
Albertino.
* * * *
Nel concludere, desidererei formulare solo un'ultima
considerazione. È certo che, tranne alcuni aspetti immutabili, il ruolo del
giudice non può sfuggire al cammino della storia: tanto egli che il servizio da
lui reso devono essere partecipi di un processo di adeguamento. Ma di ciò non
può farsi carico solo ai giudici: non si può cioè chiedere che essi traggano
soltanto da se stessi la forza per questo adeguamento.
Tutto è più complesso in una società moderna in materia di
definizione e difesa dei bisogni, degli interessi, dei diritti.
Nelle società primitive e, comunque, semplici, tutto era
relativamente chiaro in termini di "cosa era giusto e cosa era ingiusto" e tutto
era facile, relativamente, in termini di accesso a chi amministrava giustizia
(il capo tribù, il capo villaggio, il capo religioso); oggi, nelle società a
crescente complessità e soggettività, come sono tutte le società occidentali
mature, è sempre più difficile sapere e far accettare i concetti di giusto ed
ingiusto ed è sempre più difficile individuare e rendere più accessibili gli
strumenti per ottenere giusta protezione.
In questa prospettiva, riformare la giustizia, in senso
soggettivo ed oggettivo, è compito non di pochi magistrati, ma di tanti: dello
Stato, dei soggetti collettivi, della stessa opinione pubblica.
Recuperare infatti il diritto come riferimento unitario della
convivenza collettiva non può essere, in una democrazia moderna, compito di una
minoranza.
Rosario Livatino