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ALTA LEZIONE DI CIVILTA' GIURIDICA
DI ROSARIO LIVATINO

         Credo che per commemorare degnamente il giovane magistrato Rosario Livatino, a undici anni dalla sua morte, possa riuscire utile ricordarlo attraverso il suo pensiero, quello che lui espresse in una dotta conferenza, tenuta il 7 aprile 1984 all'assemblea dei soci del Rotary Club di Canicattì e che si può considerare il suo testamento spirituale.
Il tema da lui affrontato, "Il ruolo del Giudice nella società che cambia", era e rimane di grande attualità nel dibattito in corso sui problemi della giustizia e sulle soluzioni che vengono proposte per eliminarne i difetti. L'analisi che ne fa Rosario Livatino ne mette in luce la profonda competenza e ne evidenzia la coscienza di magistrato, lealmente e totalmente dedito alla sua missione.

         Egli, dopo aver dimostrato che la figura del magistrato e la società sono due realtà "su un identico piano evolutivo", poiché, se la società "è per sua stessa natura una entità in continua evoluzione", anche il magistrato, secondo una chiave di lettura che si è venuta affermando sul suo ruolo - sottolinea Livatino - "a partire dalla metà degli anni '60", è giusto che non sia più "un semplice riflesso della legge che è chiamato ad applicare", perché "non sempre la legge è in sintonia con l'evolversi del costume ma spesso, troppo spesso, si attarda e si sclerotizza": si rende necessario, quindi, che il giudice "esca dalla propria torre eburnea di immutabilità, di ibernazione sociale, divenendo attento, sensibile a quanto accanto a lui si crea, si trasforma, si perde".

         Quindi Rosario Livatino affronta quattro punti di essenziale importanza per il buon funzionamento della giustizia: il primo sui rapporti tra il magistrato e il mondo dell'economia e del lavoro; il secondo sui suoi rapporti con la sfera del "politico"; il terzo sull'aspetto della così detta sua "immagine esterna" e il quarto sul problema della sua responsabilità.

         Per quanto riguarda il rapporto del magistrato con il mondo dell'economia e del lavoro, Livatino scarta le due tesi antitetiche di una certa concezione giudiziaria: la prima di chi vorrebbe il giudice schierato dalla parte degli "interessi delle classi economiche dominanti", per consentir loro di riprendere "padronanza nel campo dell'iniziativa privata" e "sicurezza nel settore degli investimenti produttivi"; la seconda di chi vuole il magistrato "come difensore delle categorie più povere… proponendo l'aula giudiziaria come luogo di necessario, di dovuto riequilibrio fra parte sociale forte e parte sociale debole". Tutto ciò, evidenzia Livatino, "relegherebbe il Montesquieu ed il suo principio sulla separazione dei poteri davvero in una polverosa soffitta e farebbe inorridire economisti classici come Ricardo o Keynes".

         Per Rosario Livatino il giudice è e deve restare "il prototipo dell'interprete giudiziario nel comune sentire sociale come figura super partes". E quindi aggiunge: "E' peraltro da fugare il timore, purtroppo diffuso, che queste spinte innovatrici siano largamente radicate nei giudici civili e, soprattutto, nella magistratura del lavoro; timore al quale si accompagna l'altrettanto diffusa sgradevole sensazione che l'esito di una controversia individuale o collettiva di lavoro non trovi la propria fonte nella legge ma nelle simpatie del magistrato per questa o quella parte sociale".

         Sui rapporti tra il magistrato e la politica Livatino sottolinea che "è forse questo il settore più dolente, nel quale più si impuntano le critiche e dal quale provengono i maggiori allarmi". Ed è un problema di grande attualità, stante che sono numerosi i magistrati che svolgono attività politica e sono apertamente schierati con questo o quel partito. Ciò, rileva Livatino, offre "all'opinione pubblica l'immagine di una giustizia parziale, fiancheggiatrice del potere politico, di un partito politico o di un gruppo di potere, pubblico o privato". Certo, nessuno vuol togliere all'uomo-giudice "la possibilità di formarsi una propria coscienza politica, di avere un proprio convincimento su quelli che sono i temi fondamentali della nostra convivenza sociale… Essenziale è però che la decisione nasca da un processo motivazionale autonomo e completo, come frutto di una propria personale elaborazione".

         Più delicata ancora è la posizione del magistrato-parlamentare che ritorna nell'apparato giudiziario. Su di lui Livatino scrive a chiare lettere: "Ammesso che il magistrato-parlamentare sappia riacquisire per intero la propria indipendenza dal partito, che ha rappresentato al più alto livello, e spogliarsi di ogni animosità contro avversari politici che possono averlo attaccato anche duramente, è inevitabile che l'opinione pubblica, incline al sospetto e tutt'altro che propensa a credere alla rescissione di simili vincoli, continui a considerarlo adepto di quel partito, consorte o nemico di quegli uomini politici e di quanto rappresentano". E questa è la sua conclusione: "Sarebbe quindi sommamente opportuno che i giudici rinunciassero a partecipare alle competizioni elettorali in veste di candidato o, qualora ritengano che il seggio in Parlamento superi di molto in prestigio, potere ed importanza l'ufficio del giudice, effettuassero una irrevocabile scelta, bruciandosi tutti i vascelli alle spalle, con le dimissioni definitive dall'ordine giudiziario". E credo che ciò sia quel che pensa e vuole la gente comune.

         Riguardo alla cosiddetta "immagine esterna" del magistrato, si può dire che si tratta in pratica di un corollario di quanto si è affermato finora, in quanto "il giudice, oltre che essere, deve anche apparire indipendente". Riesce spontaneo a Livatino sostenere che "è da rigettare l'affermazione secondo la quale, una volta adempiuti con coscienza e scrupolo i propri doveri professionali, il giudice non ha altri obblighi da rispettare nei confronti della società e dello Stato e secondo la quale, quindi, il giudice della propria vita privata possa fare, al pari di ogni altro cittadino, quello che vuole".

         In quanto al problema della responsabilità del magistrato, Rosario Livatino ha delle perplessità, perché "non esiste, si può dire, atto del giudice e più ancora del pubblico ministero che possa dirsi indolore". Le conseguenze, pertanto, secondo Livatino, potrebbero essere gravi: "Ogni giudice nell'atto stesso in cui si accingesse alla stipula di un qualsiasi provvedimento, non potrebbe non domandarsi se per caso dal suo contenuto non gliene possa derivare una causa per danni. E sarebbe quindi inevitabile ch'egli si studiasse, più che di fare un provvedimento giusto, di fare un provvedimento innocuo". Questa conferenza di Rosario Livatino vale più di un trattato. Le sue parole meritano di essere meditate. Tanti bei precetti egli li poteva apertamente sostenere, perché - per usar le stesse parole che scrive il Manzoni a proposito del cardinale Federico Borromeo - "quelle cose erano dette da uno che poi le faceva". E se quel che sostiene il giovane-grande giudice venisse realizzato, si risolverebbero tanti problemi e si eliminerebbero tanti mali della giustizia.

                                                             Diego Lodato

Diego Lodato, Alta lezione di civiltà giuridica di Rosario Livatino, in Canicattì nuova, a. XXVIII n. 14-15, Canicattì, 16-30 settembre 2001


solfano@virgilio.it





















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