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La secolare Accademia del Parnaso Canicattinese
Recensione

Veramente pregevole quest’ultima opera di Diego Lodato, consacratosi ormai storico ufficiale della città di Canicattì, per far conoscere ad un pubblico più vasto di quello dei suoi stessi concittadini, la bizzarra ed incredibile istituzione culturale che fu l’Accademia del Parnaso, fucina di appassionante umorismo, di intelligente satira politica e di vera, dilettevole poesia popolare.
Nata negli anni venti - anche se per decreto si era stabilito che le sue origini risalissero all’epoca di Carlo V, - dall’idea di alcuni bontemponi locali, di estrazione sociale e culturale quanto mai varia, tale Accademia, che assomigliava più ad un circolo goliardico, nonostante l’impegnativo nome, frutto anch’esso di sottile ironia, era conosciuta, nel ventennio fascista, dalla grande stampa nazionale, nonché dai più noti intellettuali del tempo, molti dei quali chiesero di esservi ammessi come arcadi. E’ il caso di Pirandello, che in ossequio a tale Accademia, fece rappresentare, in anteprima mondiale, nel 1927, la sua commedia Sei personaggi in cerca d’autore, proprio nel Teatro Sociale di Canicattì, pregevole opera attribuita al Basile, di Marco Praga, di Tommaso Marinetti, di Giovanni Gentile, di Ettore Romagnoli, di Massimo Bontempelli, di Héléne Tuzet, di Angelo Musco, di Marta Abba, di Trilussa, fino in tempi più recenti di Renato Guttuso e Leonardo Sciascia che la definì "un’accademia letteraria ‘sui generis’..secolare per decisione dell’assemblea" (p. 88) che risolveva "le questioni scabrose con l’emissione di decreti, che al pari dei dogmi non si discutono. Ed è infallibile al pari e più del Papa" (pp. 121-122)
Di tale originale istituzione, che Thilger definì "la più audace e geniale satira politica e del costume" a cui, secondo santi Correnti, sarebbe " difficile contendere la palma dell’umorismo istituzionalizzato in Sicilia", ideatori furono un gruppo di verseggiatori, che tuttavia possiamo consacrare con il lauro di poeti, particolarmente versati nell’umorismo e nella satira, che, riunendosi nell’osteria di don Ciccio Giordano, o nella farmacia del dott. Diego Cigna, si prodigarono "a creare un mondo fantastico in cui tutto si svolge alla rovescia, dove l’immaginazione si confonde con la realtà, dove la carriera si percorre a ritroso, dove i veri maggiori sono i minori, dove gli asini sono saggi e sapienti e dove i soci, detti arcadi, pur se nella vita discordi, si ritrovano poi, come le Muse sulle vette del Parnaso, tutti concordi, tutti amanti della poesia, tutti con i petti frementi di canti, o meglio come è detto nel sottotitolo della ‘ parnasiana’, ‘di canti, di code, meditazioni e ragli’ e tutto ciò con l’intento (…) ‘di mettere in ridicolo la vita in ciò che questa meriti; di scherzare sulle scemenze umane e sulle cose serie; di prendere a gabbo i presuntuosi, i manierosi, i pieni di fumo, le fame malcreate" (pp. 7-8)
Tale Accademia, provvista di ‘sede urbana con acqua corrente’ e di ‘sede rurale con annesso orto’, era fornita anche di un esilarante statuto il quale, peraltro, stabiliva nell’art. 9, che chi avesse osato denigrare Canicattì per il suo scoppiettante nome, oggetto troppo spesso di ridicole battute, sarebbe stato rieducato e indottrinato affinché si imprimesse indelebilmente nella sua testa che "la città è culla e sede del Parnaso della quale è lustro, vanto e decoro".
Per cui accadde al noto commediografo Marco Praga, che in una sua commedia. La suocera, raccontava che un cancelliere di pretura per punizione era stato trasferito, nientemeno… a Canicattì, di ricevere dall’Accademia del Parnaso una vibrante protesta in versi, tanto colma di umorismo, da spingerlo, non solo a scusarsi con la cittadinanza, ma a chiedere addirittura l’adesione all’Accademia, cosa, peraltro, già prevista dall’art. 9 dello Statuto che stabiliva che ai denigratori di Canicattì sarebbe stato concesso ad honorem il diploma di arcade maggiore. (Ricordiamo che gli Arcadi maggiori era le figure marginali, mentre i veri protagonisti erano gli Arcadi minori, sempre in ossequio al principio della carriera percorsa a ritroso).
Presidente dell’Accademia era l’oste don Ciccio Giordano che restò tale anche dopo la sua morte, visto che il decreto relativo alla sua immortalità era sancito dall’art. 5 dello Statuto che così recitava: "Presidente dell’Accademia è don Ciccio. Giordano. Egli è immortale ed infallibile. Se fra quello che gli scappa detto e la verità vi è discrepanza, è la verità che deve essere corretta e non lui" (p. 149). Chiara allusione ai consensi plebiscitari delle dittature del tempo, dove l’infallibilità del capo era un dogma. E non fu il solo caso di satira politica: al motto fascista noi tireremo dritto, i Parnasiani rispondevano:

Scusassimi, signuri, pi piaciri…
Pi u manicomiu è giusta chista via?
Si fila sempri drittu…va a finiri
Sicuramenti ddà …vossignuria.


Ad un povero soldato in licenza per il puerperio della moglie che un burlone aveva indirizzato all’Accademia per ottenere un prolungamento del congedo, imperturbabilmente era stato rilasciato il seguente attestato:
"Nulla osta da parte di questa Secolare Accademia del Parnaso che il soldato Sferrazza Vincenzo del V Rgt. Fanteria, fruisca di una proroga di quarantott’ore in continuazione del permesso concessogli, per delicati motivi di famiglia, diretti eziandio all’auspicato incremento della nostra razza ariana"
Segretario generale era il farmacista Cigna, uomo politicamente molto impegnato, fondatore di vari giornali locali, ma soprattutto uomo dotato di finissimo umorismo.
L’avv. Sammartino, divenuto nel dopoguerra senatore della Repubblica, cosa che lo aveva fatto sentire degradato rispetto al titolo d’Arcade minore, era il viaggiatore piazzista dell’Accademia, colui cioè che consegnava premi e diplomi e che intratteneva, come diremmo oggi, i rapporti di public relations. Per cui quando il giornalista del Corriere della Sera Arnaldo Fraccaroli scrisse su quel quotidiano che a Canicattì si vedevano per strada più polli, capre e porci che persone, toccò a Sammartino, nella sua veste di viaggiatore piazzista, andarlo a trovare a Milano, nella sede del giornale, con un adeguato dono. Entrato nella stanza del giornalista, l’avvocato aveva prontamente rovesciato sulla sua scrivania due bei polli ruspanti, dicendo: " Ecco due illustri cittadini canicattinesi venuti a conoscerla e a ringraziarla a nome di tutti gli altri polli" (pp. 261-262). Il giornalista, dapprima disorientato, era poi esploso in una sonora risata e scusandosi per quanto aveva scritto, aveva accettato di buon grado il diploma d’arcade maggiore consegnatogli da Sammartino che, sempre con due polli, si era presentato a Trilussa per portargli il diploma.
L’Accademia univa nell’umorismo personaggi d’estrazione estremamente diversa: un barone, Agostino La Lomia, noto alle cronache mondane degli anni sessanta, un venditore ambulante, Pietro Cretti, un farmacista, Diego Cigna, un oste, Ciccio Giordano, un avvocato di grido, poi senatore, Salvatore Sammartino, un professore universitario Calogero Sacheli, un sarto, Peppi Paci, un avvocato, malato di politica e poesia come Francesco Macaluso. Anche politicamente si trattava di personaggi diversi fra loro: all’ardente socialista Cigna, si contrapponeva lo sturziano Sammartino, al fedele fascista Giordano, l’antifascista Macaluso.
L’Accademia non faceva distinzioni di sesso, quindi era aperta anche alle donne purché, se erano sposate, ci fosse, come prescriveva l’art. 31 il "consenso del marito o di chi ne fa le veci"
Lo stemma dell’Accademia era la scecca di Padre Martines, sacerdote ed arcade minore, la quale un giorno, in occasione della visita del Club Alpino di Girgenti, si rifiutò di entrare nella sede urbana, suscitando così lo spiritoso commento dell’avv. Sammartino: "E’ la prima volta che un somaro si rifiuta di entrare in un’Accademia". In ossequio alla scecca e ad un certo professore di Girgenti che soleva salutare solo gli asini e mai le persone, si stabilì, con delibera assembleare, che dovessero, da quel momento, salutarsi tutti gli asini:

Ma si s’avi a livari lu cappeddu
A quanti scecchi veni di incuntrari,
è vita ca po’ fari un puvureddu
cu lu cappeddu mmanu sempri a stari?


Fondata, effettivamente il 21 gennaio del 1921, adottò, per i suoi diplomi un cliché che non si capiva bene se rappresentasse un cane o un leone, perciò, nell’incertezza, l’Accademia si riunì e stabilì con decreto "Questo cane è leone". Con i decreti poteva trasformarsi anche la realtà, infatti, l’articolo decimo dello statuto stabiliva: "L’apparenza inganna. I Parnasiani possono pubblicare qualsiasi fotografia, qualunque cosa rappresenti, purché la didascalia illustri ampiamente ciò che, in effetti, deve raffigurare" (p. 131)
L’ideale dell’uomo cui ispirarsi era Pinco Pallino, l’antieroe per eccellenza cui tutta l’umanità doveva mostrarsi riconoscente perché, "Essendo buono a nulla, nulla oh benedetto! Fece. Perenne esempio e monito per gli altri Grandi". A tale personaggio immaginario che si contrapponeva al mito del Superuomo, tanto di moda nel tempo, il Parnaso stabiliva di tributare un monumento, un mezzo busto a testa fissa, al contrario di quello che suggeriva di fare per tutti gli altri monumenti che, per evitare la distruzione ad ogni cambiamento di moda e di regime, avrebbero dovuto avere la testa svitabile. Per Pinco Pallino che non aveva mai fatto niente, che era il prototipo dell’uomo della strada che "osserva, ma non vede, che sente e non consente, che capisce e non capisce", l’espediente non era necessario, poiché a nessuno mai sarebbe venuto in mente di abbattere il suo mezzo busto. Diversamente era capitato ad un illustre canicattinese, Alfonso Arena, diplomatico e fascista, ucciso nel 1929 da avversari politici, al quale il regime aveva deciso di erigere un monumento nei pressi del Municipio cittadino. Caduto il regime, anche il monumento era caduto oggetto della rabbia degli antifascisti e della vendetta dei notabili di turno. Era rimasto solo il piedistallo su cui, nella attesa di erigere un monumento a qualche grande confacente al nuovo regime, si era deciso di collocare un vaso smaltato, pieno di fiori, di quel tipo che in Sicilia si suole chiamare lemmu e che si suole usare per altri bisogni. Tale vaso, posto su di un piedistallo, suscitava la curiosità dei forestieri cui argutamente rispose con una poesia uno degli arcadi minori, lo spiritosissimo Enrico Cacciato:

(…) E gli stranieri stanno a domandare
con interesse vero ed ansietà
se il "lemmu" fu poeta o militare.
Ma noi che già sappiam la verità:
" Fu un grande eroe" (teniamo a precisare)
che tenne sempre a mollo il baccalà.


Esilaranti erano le beffe che questa accolita di buontemponi, rimasti bambini nel cuore, e desiderosi di coprire le brutture del mondo con il velo dell’umorismo, perpetravano nei confronti delle istituzioni più serie.
Quando fu fondata l’Accademia d’Italia, per esempio, fu il Parnaso a mandarle le prime felicitazioni cui rispose lo stesso presidente Tittoni con un telegramma di ringraziamenti e di calorosi auguri all’antica ed illustre consorella" che costituiva, peraltro, il primo atto ufficiale della neonata Accademia.. (p.159).Quando ci si accorse della burla, come scrisse Il Tempo di Roma, si accusò l’accademia canicattinese d’antifascismo. I Parnasiani si difesero affermando che la loro Accademia meritava di essere chiamata consorella dell’Accademia d’Italia, perché fra i suoi molteplici meriti, c’era anche quello di aver contribuito a dirimere una controversia internazionale come quella che contrapponeva l’Italia e la Spagna in relazione alla vera nazionalità di Cristoforo Colombo. L’Accademia, riunitasi in seduta plenaria, con la partecipazione straordinaria della somara che, per l’occasione inforcò gli occhiali, dopo lunghi studi ed estenuanti ricerche, giocando sulla pronunzia spagnola delle due elle, così decretò:

Dichiara st’’Accademia Seculari
Ca avennu li ricerchi fatti beni
Daveru ca nun potti mai truvari
D’Italia in tutti quanti li tirreni
Paisi ca putissi arrigistrari
Lu nomu di Collon. Da cui ni veni
Ca, essennu li Collon tutti spagnoli,
cu è Collon l’Italia nun lu voli. (p.163)


Quando la poesia fu inviata alle principali accademie e giornali italiani, grande fu lo sconcerto di storici e letterati, finché, compreso il gioco di pronunzia, ci si congratulò universalmente, tra fragorose risate, con i Parnasiani per la loro incredibile arguzia.
Un’opera come questa, portata a termine con impegno e con amore da Diego Lodato, non solo è pregevole perché contribuisce a diffondere la storia della cultura popolare della provincia, ma soprattutto perché riesce a suscitarci momenti di profonda allegria, che ci fanno dimenticare, per un po’, quanto sia purtroppo diverso questo nostro mondo rispetto alle immagini con cui i Parnasiani lo hanno trasformato.

                               Gabriella Portalone

Da: ISTITUTO SICILIANO DI STUDI POLITICI ED ECONOMICI


solfano@virgilio.it


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