Da giovane studente universitario, la figura schiva e taciturna del «giudice» Saetta — cosi veniva comunemente conosciuto a Canicattì — mi aveva accompagnato durante il corso degli studi, continuamente evocata da mio padre quale esempio da seguire.
Per mio padre, contadino e figlio di contadini, l'idea che io potessi riuscire a diventare un giudice era niente di più che un'utopia, coltivata con le migliori intenzioni e con il massimo impegno, ma pur sempre un'utopia.
Non avrei mai immaginato che, dopo quel maledetto 25 settembre 1988, la mia passione per il diritto, che allora si infrangeva sugli scogli di incerte e fragili prospettive professionali, trovasse un eccezionale slancio motivazionale nello strazio e nell'ondata di sdegno che in tutti, anche quelli più indifferenti, aveva suscitato quel duplice barbaro assassino.
Quel maledetto 25 settembre, quando fu assassinato assieme al figlio Stefano sulla statale Agrigento-Caltanissetta, il presidente Antonino Saetta era pressoché sconosciuto al di fuori dell'ambiente della Corte di assise di appello di Palermo, ove prestava servizio. Eppure, a un mese dal compimento dei sessantasei anni, il presidente Saetta aveva speso gran parte della sua vita al servizio dello Stato, in magistratura, nei cui ruoli era entrato nel 1948, all'età di ventisei anni.
Iniziò la sua carriera in Piemonte come pretore e poi come giudice istruttore e dal 1955 svolse le funzioni di giudice civile e penale, procuratore della Repubblica di Sciacca, consigliere delle corti di appello di Palermo e Genova. Dopo la nomina a presidente di sezione della Corte di appello di Caltanissetta, nel 1985, si occupò, per la prima volta nella sua carriera, della trattazione di un importante processo di mafia, quello relativo alla strage di via Pipitone Federico in cui venne assassinato il consigliere istruttore Rocco Chinnici.
Nonostante un tentativo di condizionamento a opera del noto esponente mafioso canicattinese Peppe Di Caro, la corte presieduta da Saetta definì il processo con una sentenza con la quale furono aggravate le condanne e le pene pronunziate con la sentenza di primo grado. Poco meno di un anno dopo, la famiglia Saetta subiva l'incendio di un villino, a Carini: inevitabile prezzo pagato al rigore e alla fermezza.
Nel 1986 Antonino Saetta assunse il suo ultimo incarico quale presidente della prima sezione della Corte di assise di appello di Palermo e dovette occuparsi di alcuni importanti processi di mafia, tra i quali quello a carico di Giuseppe Madonia, Armando Bonanno e Vincenzo Puccio, esecutori materiali il 4 maggio 1980 dell'omicidio del capitano Emanuele Basile. La storia di questo processo e del suo tortuoso svolgimento costituiscono una delle pagine più dolorose e drammatiche della storia giudiziaria dell'Italia repubblicana, al punto da essere considerato l'espressione emblematica della capacità dell'organizzazione mafiosa di interferire illecitamente sull'esercizio della funzione giurisdizionale. Nonostante la linearità e la molteplicità degli elementi di prova acquisiti a carico dei tre imputati, raggiunti da "prove schiaccianti" perfino secondo il giudizio degli altri uomini d'onore, si susseguirono talune sconcertanti e paradossali decisioni dei giudici di merito e anche della Corte di Cassazione che vanificarono la solida istruttoria svolta dal giudice Paolo Borsellino e determinarono l'assoluzione degli imputati.
Anche in questo caso non erano mancati i tentativi di intimidazione ma, ciononostante, la corte da lui presieduta, con indiscussa imparzialità e ineccepibile rigore, definì il processo con la sentenza del 23 giugno 1988, che giudicava nuovamente colpevoli gli imputati e li condannava all'ergastolo. Pochi giorni dopo il deposito della sentenza, il presidente Saetta veniva ucciso insieme al figlio Stefano.
La Corte di Assise di Caltanissetta che ha giudicato e condannato all'ergastolo Salvatore Riina e Francesco Madonia, quali mandanti, e Pietro Ribisi, quale esecutore materiale, ha evidenziato che l'omicidio del Presidente Saetta «maturò in un contesto e in un momento storico in cui per le funzioni giurisdizionali svolte in determinati processi, per l'impegno profuso, per la fermezza dimostrata per il rigore morale che ebbe a ispirarne l'attività professionale, divenne funzionale a un interesse strategico e complessivo di quella potente e pericolosissima organizzazione criminosa che è Cosa nostra». Questo interesse strategico era la risultante della convergenza di diverse causali e, in primo luogo, di un movente ritorsivo conseguente alla tenace resistenza manifestata dal presidente Saetta verso i pesanti tentativi di condizionamento subiti che, con specifico riferimento al processo Basile, non si erano arrestati neppure dopo la sua morte.
Ma sono stato accertati anche un movente preventivo — volto a evitare che il presidente Saetta, dimostratesi cosi fermo ed inflessibile, fosse destinato, come ormai era sempre più probabile, alla presidenza del primo maxi-processo di appello — e un movente di intimidazione generale verso tutti i componenti degli organi collegiali giudicati che in quel periodo si stavano occupando di importanti processi di mafia. Movente che, nell'immediatezza dell'omicidio, venne subito colto dall'allora giudice istruttore Giovanni Falcone, il quale evidenziò il salto di qualità compiuto dall'organizzazione mafiosa con l'uccisione, per la prima volta, di un magistrato della giudicante.
A distanza di alcuni mesi dall'omicidio, il 26 gennaio del 1989, nel corso di un incontro con gli studenti di un istituto professionale di Bassano del Grappa, Paolo Borsellino evidenziò la straordinaria gravita del duplice omicidio Saetta, non solo per l'irreparabile perdita di due vite umane ma anche per l'allarme generalizzato che il fatto aveva finito per provocare in tutti gli appartenenti all'ordine giudiziario, anche tra quelli non direttamente esposti e che non si occupavano di indagini e di processi di mafia, i quali però «se un giorno fossero stati chiamati a far parte di un collegio che doveva giudicare imputati per fatti di mafia avrebbe dovuto mettere in conto di potere essere colpiti nella propria incolumità e in quella dei propri familiari».
In questi diciannove anni che sono intercorsi dalla sua morte, la figura e il sacrificio del presidente Saetta sono stati spesso dimenticati, come ha più volte e con garbo fatto notare il figlio, l'avvocato Roberto Saetta, adducendo il concorso di varie circostanze obiettive che vanno dalla poca notorietà avuta da vivo, alla naturale riservatezza del carattere e forse anche, probabilmente, al luogo in cui l'omicidio venne consumato, lontano da Palermo, ove aveva la residenza e ove svolgeva le sue funzioni. Tuttavia la figura di Saetta ha conservato una straordinaria attualità. In un momento storico come quello attuale, caratterizzato da una sempre più incalzante tendenza a orientare il ruolo e la funzione del giudice verso l'accettazione di atteggiamenti conformistici graditi dai potenti di turno, la storia personale e professionale di Antonino Saetta, giudice dalla schiena diritta, costituisce un immenso patrimonio di valori a cui tutta la magistratura deve ispirarsi per non rinunciare alla difesa dei principi di indipendenza e di imparzialità e dell 'uniforme esercizio del controllo di legalità. Il presidente Saetta non aveva fatto nulla di straordinario per diventare la figura straordinaria che oggi si ricorda, si era limitato a svolgere soltanto il suo dovere e per questo è stato ucciso dalla mafia ma anche perché, forse, altri al suo posto — per paura, per vigliaccheria o, peggio, per collusione — non sono stati in grado di compiere il loro dovere sino in fondo.
Gaetano Paci Sostituto Procuratore della Repubblica a Palermo