Indice

Dalle origini ai Bonanno

Dal Cinquecento al terremoto del 1693

Dal principe della Cattolica allo sbarco dei Mille

Dall'Unità d'Italia alla Grande Guerra

Canicattì tra le due guerre

Dal dopoguerra ad oggi





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Storia di Canicattì

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Occupazione USA di Canicattì

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Foto Storiche 2

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Foto panoramiche di Canicattì

Foto di Canicattì 1

Foto di Canicattì 2

Foto di Canicattì 3

Foto di Canicattì 4

Foto di Canicattì 5

Foto di Canicattì 6

Uva Italia di Canicattì

Cartine Topografiche di Canicattì

Informazioni utili

Statuto del Comune di Canicattì
 

SOMMARIO STORICO DI CANICATTÌ

di Diego Lodato

 

 

Il territorio

Sorge Canicattì sul lembo collinare più fertile della Sicilia sud-occidentale, su un'altitudine media di 465 metri, a 37,21' gradi di latitudine nord e 13,51' di longitudine est, a metà strada tra Agrigento e Caltanissetta. Conta circa 34.000 abitanti, si estende per 9142 ettari, è importante nodo stradale e ferroviario ed è al centro di un vasto comprensorio di paesi, di cui è validissimo perno sociale e commerciale. Per la sua prosperità agricola, fondata soprattutto sulla coltura dei vigneti di uva da tavola, è stata annoverata nel 1987 tra i Cento Comuni della Piccola-Grande Italia che hanno maggiormente contribuito al progresso della Repubblica.

 

L'origine e il nome

Il nome di Canicattì è di origine araba, ma l'origine di Canicattì è molto più antica. Nel Lexicon Topographicum Siculum leggiamo che Canicattì esisteva fin dal tempo degli Etnici, cioè dei popoli vissuti prima della nascita di Gesù Cristo. Secondo l'autore dell'Aurea Fenice, Canicattì si chiamava allora Corconiana.

Il nome di Canicattì deriva, secondo Michele Amari, dall'arabo Al Qattà, con cui il paese, o meglio l'acrocoro, viene indicato dall'Edrisi nel Libro del re Ruggero. Al riguardo l'Amari precisa: "Basta premettere a questo nome la voce 'ayn fonte per approssimarsi al suono di Canicattì". Dunque, con l'aggiunta di ayn e la trasformazione della a finale in i, come spiega il Raccuglia, abbiamo Ayn-al-qattì, cioè "fonte del tagliatore di pietre", perché il paese era sorto presso cave e fontane.

Più attendibile, però, è la derivazione da Handaq-attin, che vuol dire fossato di argilla, toponimo che troviamo in una carta geografica della Sicilia sotto i Saraceni e che è molto vicino all'antica dizione di Candicattini. Con il nome di Handaq-attin veniva chiamata dagli Arabi la parte bassa del paese, quella pianeggiante, caratterizzata da un ampio alveo argilloso, in cui scorreva il fiume Naro.

 

Mozio-Vitosoldano

La storia di Canicattì è strettamente legata a Vitosoldano, dove era fiorente nel V secolo a. C. la fortezza di Mozio, fondata dagli acragantini, a comune difesa dei Sicani ellenizzati. Da Mozio-Vitosoldano proviene, secondo quanto racconta il Lexicon, la statua della Madonna che si venera nella cappella di Maria SS. delle Grazie alla Matrice. Per la sua posizione strategica, come punto di controllo di tutto il traffico viario che si svolgeva da Agrigento a Catania, Mozio fu scelta forse come sede di quel Vico Pretorio di cui parla Ottavio Gaetani nel suo Vitae Sanctorum Siculorum.

 

L'invasione araba

Quando gli Arabi invasero e distrussero Mozio, gli abitanti cercarono scampo nella vicina Canicattì. E la gente avvolse nella leggenda le gesta del conquistatore, tramandandone la figura ai posteri con l'appellativo di Vito Soldano e l'immagine di spietato tiranno, che avrebbe imposto il suo nome alla contrada distrutta e avrebbe terrorizzato i sudditi con continue esecuzioni capitali. Si narra che egli estraesse a sorte gli sventurati destinati al supplizio e ne rinchiudesse uno al giorno nel ventre arroventato di un vitello di bronzo.

In tal modo la figura di Vito Soldano appare palesemente confusa con quella di Falaride. E un motivo c'è: il regime di terrore instaurato dal sultano oscurò talmente la fama del tiranno ellenico da farne tutt'uno.

 

La baronia dei Palmeri e di Andrea De Crescenzio

Con la conquista normanna ebbe origine la baronia dei Palmeri. Questi rimasero a Canicattì fino alla metà del XV secolo, quando Antonio Palmeri, vecchio e senza figli, vendette ad Andrea De Crescenzio, marito della nipote, la baronia per 250 onze. Questi chiese al re Alfonso d'Aragona la facoltà di ampliare i confini del borgo e di fortificarli. Il privilegio gli fu concesso il 3 febbraio 1467; e concesso gli fu anche il diritto di aumentare la popolazione e di esercitare su di essa il mero e misto imperio, cioè il potere di amministrare la giustizia civile e penale.

Si prodigò, pertanto, Andrea De Crescenzio a farvi affluire gente da altri territori, invogliandola con agevolazioni e concessioni varie. Tra gli altri vi immigrarono, secondo la tradizione, numerosi abitanti di Taormina, i quali, devoti di San Pancrazio, ne introdussero il culto a Canicattì, anzi fecero sì che ne diventasse il patrono. E si prodigarono a dedicare a lui la vecchia Matrice. Storicamente, però, il fatto che Canicattì abbia la propria Matrice, fin da quando essa sorgeva nei pressi del Castello, dedicata a San Pancrazio, un santo di origine orientale, la cui festa anticamente si celebrava nella data della liturgia greca, il 9 luglio, unitamente al fatto che abbia una chiesa consacrata a San Nicola, santo pure lui orientale, sta a dimostrare, in sintonia con la tesi degli storici cristiani, l'antichità d'origine del paese.

 

Il Castello e l'insediamento dei Bonanno

Andrea De Crescenzio si spense nel 1485 e gli successe il figlio Giovanni, il quale per più di vent'anni esercitò con molta dignità il potere baronale nella terra di Canicattì, fino al 1507. Egli si prodigò soprattutto ad aprire nuove strade e migliorare le condizioni del Castello per trasformarlo in Palazzo del Barone, che si sarebbe distinto, a dir degli storici, per gli spaziosi appartamenti e gli scelti mobili. Esposto a mezzogiorno per una lunghezza di sessanta metri, vi si entrava da un gran portone centrale, da cui si passava in un cortile interno, attorno a cui erano dislocati gli alloggi dei soldati, le stanze dei servi, le scuderie, i magazzini e le celle carcerarie. Attraverso un fastoso scalone si saliva al piano superiore degli appartamenti del barone e della baronessa, divisi da un ampio salone centrale.

Giovanni De Crescenzio si spense senza lasciare figli maschi, e perciò toccò al marito della figlia Ramondetta succedergli nella baronia: si chiamava Calogero Bonanno e proveniva da Caltagirone, ma la sua famiglia aveva origini toscane. Il figlio Filippo Bonanno De Crescenzio si curò tanto del Castello, provvedendo a ordinare e completare la ricca armeria, che si faceva risalire al Conte Ruggero, perché composta, seconda la tradizione, dalle armi che il Conte aveva tolto agli arabi nella battaglia di Monte Saraceno.

L'Armeria del Castello

L'abate benedettino Vito Amico, che quest'Armeria ebbe modo di vedere nella prima metà del Settecento, la definì "celebris per insulam universam", famosa in tutta la Sicilia, e descrisse con stupore le militari armature di ogni sorta e dimensione, specie cavalleresche, intessute d'oro e d'argento. E restò ammirato dinanzi alla eccezionale spada che il popolo diceva essere stata un tempo del conte Ruggero.

Tali armi venivano portate in processione, la Domenica in Albis, per la festa della Madonna, dallo Squadrone della Maestranza, una corporazione di mastri: e ciò per ricordare l'aiuto miracoloso che il conte Ruggero aveva ricevuto dalla Vergine nella battaglia di Monte Saraceno, quando, appressandosi la fine del giorno, aveva pregato la Madonna di fermare il sole per consentirgli di ottenere la piena vittoria. E si dice che l'Immacolata gli sia allora apparsa sul campo di battaglia e ne abbia esaudito la preghiera.

A lungo rimasero le armi nel nostro Castello, oggetto di ammirazione dell'intera Sicilia, finché nel 1827 la vedova dell'ultimo Bonanno, donna Teresa Moncada, le cedette a Francesco I, re di Napoli, che le affidò al Museo di Capodimonte, da dove, dopo la proclamazione del Regno d'Italia, furono trasferite all'Armeria Reale di Torino. Ma, già in precedenza, nel 1808, il marito, Giuseppe Bonanno Branciforti, aveva regalato a Ferdinando I la spada e lo scudo del conte Ruggero. Tutto, però, è andato perduto. Chi cercasse oggi a Torino le celebri armi del Castello di Canicattì ; resterebbe fortemente deluso. Nell'Armeria della città piemontese non se ne trova traccia alcuna. Che fine abbiano fatto nessuno finora è riuscito a saperlo.

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