San Diego, protettore di Canicattì
Di come San Diego sia diventato protettore di Canicattì si è impadronita la leggenda. Così come l'ha raccolta il prof. Sacheli, essa racconta che un giorno una statua di San Diego stava per essere portata, sopra un carro tirato dai buoi, dalla Spagna a Caltanissetta. Ma allo stretto di Naro, spossati e assetati, gli uomini si erano fermati per dissetarsi, cercando, però, l'acqua invano. Li soccorreva allora San Diego, facendo zampillare ai suoi piedi una sorgente di limpida acqua, che avrebbe poi formato la cosiddetta fontana dello stretto. Era il primo prodigio; il secondo avveniva a Canicattì, davanti alla chiesa di San Sebastiano. Quivi i buoi piegavano le ginocchia e non volevano sentirne più di continuare il viaggio: "Non ci fu forza umana - scrive il Sacheli - che valesse a smuoverli. Il Santo voleva essere protettore di Canicattì, e così fu fatto". Quella statua che era destinata a Caltanissetta rimase a Canicattì, dentro la chiesa di San Sebastiano.
Non c'era nel passato calamità in cui i canicattinesi non si prodigassero a portarne in processione la statua, spesso insieme con l'Immacolata della chiesa di San Francesco, per impetrare la fine del flagello o per implorare la pioggia o la fine di essa, quando questa era eccessiva.
Il principe della Cattolica
Il nuovo barone Francesco Bonanno Bosco divenne, per eredità materna, anche principe della Cattolica. Nel 1727, in qualità di vicario generale, si assunse l'incarico di sgominare la feroce banda Sferlazza che terrorizzava le campagne dell'agrigentino. Il principe riuscì a catturare i banditi e a portarli nel Castello di Canicattì, dove vennero rinchiusi nelle celle dei condannati da giustiziare. L'esecuzione avvenne in quella contrada che porta il nome di Folche.
Il Bonanno era pretore di Palermo, cioè sindaco, quando nel 1734 all'Austria subentrava di nuovo la Spagna e Carlo III di Borbone, figlio di Filippo V, diventava rex utriusque Siciliae, re dell'una e l'altra Sicilia. Nel 1735 il novello sovrano giungeva a Palermo, accolto calorosamente dal Bonanno, che, in virtù della carica che rivestiva, gli consegnava le chiavi della città e si sedeva al suo fianco. A Canicattì poco egli pensava ormai.
Il principe della Cattolica morì il giorno di Natale del 1739 e venne sepolto a Palermo. La sua prima moglie Isabella Morra, morta a Vicari in giovane età, era stata sepolta il 9 ottobre 1708 a Canicattì, nella cappella gentilizia di famiglia nella chiesa dello Spirito Santo: e così pure una figlioletta del barone, la piccola Maria, spentasi a due anni nel nostro Castello il 4 dicembre successivo, cioè meno di due mesi dopo la morte della madre. Fu dalla seconda moglie, Anna Maria Filangeri che nacque il nuovo barone di Canicattì.
Ma dei bisogni del paese il novello barone, don Giuseppe Bonanno Filangeri, si disinteressava del tutto, interamente dedito agli impegni e agli onori delle sue cariche. Egli viveva abitualmente tra Palermo e Napoli. Della baronia di Canicattì affidò la procura generale al fratello Emanuele, duca di Misilmeri.
I nuovi baroni
Ai canicattinesi poco ormai importava dei Bonanno, intenti com'erano a migliorare le proprie condizioni di vita. Parecchi avevano acquistato notevole ricchezza e gli imponenti palazzi che venivano eretti ne sono testimonianza. Alcuni anche dei più ricchi diventavano blasonati: nel 1757 don Antonino Adamo otteneva il titolo di barone del Monte, e dieci anni dopo diveniva anche signore del feudo della Grasta; nel 1790 era don Marco La Lomia a ottenere la baronia di Carbuscia; ma l'acquisto suo più prestigioso fu quello del feudo di Giacchetto, proprietà delle suore benedettine di Naro.
Gli ultimi Bonanno
Il nuovo barone Francesco Antonio Bonanno Borromeo ebbe l'investitura della baronia di Canicattì il 21 marzo 1781 e la conservò fino al 1797, anno in cui gli subentrò il figlio Giuseppe Bonanno Branciforti, il quale, dietro la spinta degli incipienti rivolgimenti sociali e politici, decideva nel 1819 di cedere la signoria di Canicattì in perpetua enfiteusi per millesettecento onze all'anno a don Gabriele Chiaramonte Bordonaro, barone di Gebbiarossa. Ma intanto il Risorgimento spazzava via gli ultimi residui feudali e dava a Canicattì la dignità di città libera, avviata a prospero e felice avvenire.
Lotte popolari antiborboniche
Canicattì era ormai libera dai ceppi feudali; ma il popolo si sentiva ancora vessato dal regime borbonico. Nel mese di novembre del 1820 si verificarono vari disordini, con saccheggi e incendi di case, quali quelle dell'esattore don Pietro Palumbo e di don Filippo Caramazza a Borgalino. Negli scontri ci furono anche vari feriti e un morto. Il re Ferdinando I mandò perciò a Canicattì ben seicento soldati, che vi giunsero l'antivigilia di Natale del 1820 e s'insediarono nel Castello e nel convento di San Domenico. E per il Capodanno, con un'azione dimostrativa di forza, seguirono in processione il Gesù Bambino di questa chiesa. Il giorno dell'Epifania, poi, ne arrivarono altri seicento; e trovarono alloggio nel convento francescano dello
Spirito Santo
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Dei capi della rivolta Domenico Di Puma venne catturato, ma Luigi Napoli e i fratelli La Mattina riuscirono a darsi alla latitanza. Quasi contemporaneamente altri canicattinesi lottavano mossi da sentimenti patriottici: erano Vincenzo Pellitteri e l'avvocato Luigi Lo Brutto, di ventisei anni il primo e di trentuno il secondo; ma finirono in carcere entrambi.
L'avvento al trono del ventenne Ferdinando II, l'8 novembre 1830, faceva sperare di meglio per le simpatie di cui godeva, per essere nato a Palermo. Egli si affrettava a inviare in Sicilia, con il grado di luogotenente generale, il diciannovenne fratello Leopoldo, il quale il 7 Maggio 1932 giungeva a Canicattì.
Il colera del 1837
Nell'estate del 1837 piombava in Sicilia il colera, che a Canicattì, in soli due mesi, dal 15 luglio al 18 settembre, provocava quasi mille decessi, con più di ottocento morti nel solo mese di agosto, contro la media ordinaria di circa quaranta al mese, su una popolazione di pressappoco diciottomila abitanti. Per gli ammalati si approntò una specie di lazzaretto al Castello e nel Palazzo Corbo di Borgalino. E posti sotto controllo furono i valichi di accesso alla città, che erano Scalilli, Stazzone, Folche, Cuba, Poggio di luce, Santa Lucia e Selva di Santo Spirito.
Il colera fece aumentare ancor di più in Sicilia l'odio contro i Borboni, accusati di diffondere il contagio tramite gli untori. Rivolte scoppiarono in varie città, ma vennero ferocemente represse: e così ai quasi settantamila morti nell'isola per il colera si aggiunsero "circa novanta fucilati per ragioni politiche".
La venuta del re Ferdinando II
Per far dimenticare le repressioni e i lutti e anche per lusingare con la promessa di opere pubbliche, scese Ferdinando II in Sicilia nel mese di ottobre del 1838. Non essendoci ancora strade rotabili, il re dovette affrontare il lungo viaggio a cavallo e la regina in lettiga. Essi pernottarono a Canicattì nel Palazzo Bartoccelli, già del barone Gaetano Adamo, tra l'entusiasmo dei contadini, che, con dei falò accesi nella notte, giunsero a trasformare la Serra Puleri in un piccolo Vesuvio. Il re ne rimase assai compiaciuto e cercò di accattivarsi ancora di più le simpatie dei canicattinesi con il decreto del 17 dicembre 1838 con cui disponeva la costruzione di una strada per Caltanissetta, di una per Licata e di un'altra per Racalmuto.
La rivoluzione del 1848
Nel gennaio 1848, in seguito alla rivolta scoppiata a Palermo e diffusasi nel resto della Sicilia, anche Canicattì insorgeva, aboliva il Decurionato (Consiglio comunale) e lo sostituiva con un Comitato rivoluzionario, che aveva come presidente il barone Gaetano Bartoccelli e segretario Antonio Meli, ed era composto da Salvatore Gangitano, Pietro Testasecca, Luigi Stella, Giovan Battista Racalbuto, Giuseppe Caramazza, Giuseppe Bordonaro, Giuseppe Lombardo, Giacinto Gangitano, Antonio Mulone, Domenico Caro, Alfonso Martines, Emanuele Gangitano, Raimondo Mongiovì, Giuseppe Curtopelle, Antonio Corsello, Salvatore Insalaco, Angelo Di Rocco, Raimondo Li Calzi, sac. Vincenzo Cammilleri e sac. Gioacchino Caico.
Tale Comitato sopprimeva subito l'antipopolare tassa sul macinato e si prodigava a distribuire duecento salme di grano ai bisognosi. Ma, mentre molti spiriti eletti si prodigavano per il successo della rivoluzione, e tra questi il frate minore padre Francesco De Caro, con le sue prediche quaresimali, tanti facinorosi cercavano di pescare nel torbido. Il Comitato provvedeva allora a istituire una squadra di dodici guardie a cavallo per la perlustrazione delle campagne; e rafforzava anche la Guardia Nazionale, portando a 780 i suoi componenti, raggruppati in sei compagnie.
La strage del lago di Trebastoni
Un forte attrito insorgeva tra il Comitato rivoluzionario di Canicattì e quello di Naro per la strage di Trebastoni, in cui, in seguito all'uccisione di tre cacciatori canicattinesi, erano stati per ritorsione massacrati dei naresi. Ma poi l'intervento pacificatore del Comitato di Girgenti ristabiliva la concordia tra le due città con la pace suggellata a Rocca di Mendola, nella casa di campagna dei padri agostiniani di Naro, da un fraterno abbraccio tra naresi e canicattinesi: il cav. Baldassare Gaetani e il barone Ignazio Specchi per Naro e il barone Gaetano Bartoccelli e il cav. Giacinto Gangitano per Canicattì.
I patrioti canicattinesi G. Antinoro e V. Macaluso
Non tardava, però, Ferdinando II a riprendere la Sicilia, e pertanto il Decurionato di Canicattì, presieduto da don Placido Sammarco, esternava "i sentimenti di rassegnazione ed umile obbedienza" al sovrano.
Ma c'erano dei canicattinesi che tramavano audacemente contro i Borboni. L'avvocato Gaetano Antinoro, con grave rischio personale, ospitava clandestinamente a Palermo il barone patriota Francesco Bentivegna e i suoi compagni. Un altro canicattinese, Vincenzo Macaluso, anch'egli avvocato, con un audace atto di sfida, che gli sarebbe costata la condanna a morte, inalberava il 3 luglio 1859, come dice lui stesso, "la prima bandiera dell'Indipendenza Italiana" sul monte La Pietra, "una rocca isolata bianchissima sorgente a cavaliere tra Grotte e Comitini"; e dava così inizio a una rivolta che si espandeva a macchia d'olio fino a Palermo.
Vincenzo Macaluso per le sue ardite gesta patriottiche subì tre condanne a morte da parte dei Borboni: dalle prime due lo salvò l'intercessione dello zio Gioacchino La Lomia, ministro della Giustizia del re di Napoli; dalla terza lo salvò Garibaldi, quando liberò Palermo. Divenuto uomo di fiducia del Generale, fu poi, per la sua integrità morale e l'ansia di giustizia, oltre che per le sue convinzioni repubblicane, contrastato dai luogotenenti piemontesi, che ne boicottarono sempre l'elezione al Parlamento. E in solitudine si spense a Roma, non ancor settantenne, il 27 dicembre 1892.
Lo sbarco dei Mille e la liberazione di Canicattì
Lo stesso giorno dello sbarco dei Mille, l'11 maggio 1860, Canicattì venne ridotta in stato d'assedio da un reggimento di soldati comandati dal generale Gaetano Afan de Rivera. Ma il 18 fu lasciata libera, perché c'era Girgenti che preoccupava di più. Questa, infatti, insorgeva il 23, cacciando le truppe borboniche, che ripiegavano su Canicattì. Ma anche da qui si allontanavano lo stesso giorno, allarmati dall'incombente rivolta popolare. E il tricolore cominciò dunque a sventolare sulla
Torre dell'Orologio
e per le vie, mentre al Comune si insediavano il Consiglio Civico, il Magistrato Municipale e la Guardia Nazionale.
In aiuto di Garibaldi Canicattì inviava venticinque volontari, quattordici cavalli, quattro muli, più di duemila metri di tela e ottocentocinquanta ducati. Per tale valido contributo Francesco Crispi, ministro dell'Interno, ringraziava da Palermo, il 12 giugno 1860, il presidente Gangitano, partecipava le lodi da parte del Generale e sottolineava che i voti e i sentimenti dei canicattinesi "non poteano giungere né più caldi né più patriottici".
A nome di Garibaldi veniva a ringraziare Canicattì il 19 luglio 1860 il figlio Menotti. Era il giorno del genetliaco del padre, sicché il Consiglio Civico aveva proclamato il 19 luglio "giorno di festa cittadina", definendolo "giorno di comune esultanza, sacrato a far onore al grande Italiano, all'Eroe di Como, e di Calatafimi, al più cospicuo sostenitore dei diritti dell'umanità conculcati, all'intemerato nostro Liberatore". I momenti più esaltanti della festa furono il solenne Te Deum alla Matrice e la serata di gala in casa Gangitano.