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STORIA SEMISERIA DI UN PAESE DI CUCCAGNA

di Diego Lodato

         C'era una volta in un angolo di questo mondo lievemente adagiato sul dolce declivio di aeree colline un paese di nome Alquattain: araba l'origine, ma cristiana l'anima, anche se Cristo pare che non ci fosse ancora arrivato. Contava circa trentamila abitanti e tutti andavano mirabilmente d'accordo: cani e gatti, uomini e somari, statue di marmo e facce di bronzo. Era sede di un'accademia un po' bizzarra, la quale aveva per emblema un'asina alata e definiva gli arcadi maggiori "i non minori" e viceversa. Ma, quel che conta, aveva il più intraprendente Palazzo che ci fosse sotto la luna, il quale con occhi di Argo e braccia di Briareo s'andava instancabilmente trafficando per i pubblici emo-lumenti. Non c'era problema che non venisse immantinente affrontato e tosto risolto.
         Pressati e angosciati dal problema idrico, i palatini avevano perso il sonno, con l'eccezione però di qualcuno, il cui sommo diletto era non far mai nulla e starsene a letto: cosa normale, del resto, in un mondo eterogeneo come il nostro, che è suggestivo proprio perché vario. Si giuntarono allora e, tra mille riverenze, complimenti, preamboli, sospiri, sospensioni, proposizioni e tergiversazioni, decisero finalmente di risolvere il problema, costruendo bacini e serbatoi, scavando pozzi e arginando torrenti, perché c'era da irrigare una immensa campagna ferace e zeppa di vigneti, e soprattutto perché c'era da dissetare un paese che non ne poteva più di bere solo una volta alla settimana. Gran danno ne derivava anche all'igiene: e già si diceva che tra la gente serpeggiasse l'epatite virale.
         C'era, perciò, il problema di ricoverare i malati e non si sapeva dove, perché il vetusto ospedale era tale solo di nome. Si giuntarono ancora una volta i palatini e, dopo varie considerazioni e discorsi, fatti di pur, di poi, di ma, di se e di forse, nell'intento di operare nel superiore interesse del paese, deliberarono di erigerne uno nuovo, che fosse all'altezza della situazione. Senza indugio alcuno ebbero inizio i lavori e, in men che non si dica, l'ospedale fu pronto, alto, solenne e accessibile da infinite vie, perché ad Alquattain le strade erano più di quelle che portano a Roma.
        Tangenziali e circonvallazioni, viali alberati e passeggiate ariose, corsi tranquilli e vie ordinate si snodavano e intersecavano senza soluzione di continuità. C'era stato, invero, un tempo in cui tutto il traffico, leggero e pesante, aveva dovuto attraversare una certa strada, dedicata a una certa regina e dai palatini ritenuta salotto e passeggiata, con la incresciosa conseguenza di un caos tumultuoso e di un frastuono indicibile; ma era ormai un lontano ricordo. Tutto era ora assai funzionale e razionale ad Alquattain. C'era una via, in cui sorgevano un Liceo, un Istituto e una Media in costruzione cronica, la quale era così ampia da consentire il continuo fluire di auto e moto a non finire. Peccato, però, che non restasse spazio per i pedoni, ingolfata com'era la corsia e carenti i marciapiedi. Ma era una bazzecola.
        Del resto, se si voleva star comodi, c'erano le piazze e i larghi, che i palatini s'erano adoprati d'ornare di monumenti, fontane, alberi e sedili. Purtroppo, a causa della sua miopia, la gente di Alquattain non vedeva che soltanto pali di segnaletica stradale. Come ripiego c'era allora la villa comunale, che un temerario forestiero, un certo commissario Calvi, aveva osato edificare, sottraendo terra preziosa all'edilizia urbana.
         La delizia di Alquattain era, infatti, il cemento, ma regolato ad arte dagli insonni palatini, in modo che l'urbanistica fosse impeccabile: ampie strade, vasti marciapiedi e palazzi perfetti. Bandito era l'abusivismo, ignota la speculazione, alla portata di tutti gli appartamenti, semiregalato e sovrabbondante lo spazio edificabile. Solo per i morti esso mancava, ma tanto essi non protestavano, né vedevano niente, sicché si potevano benissimo tenere tra loculi diruti, immondizie, macerie e bronchi. Altrimenti non sarebbe stato possibile veder la notte uscir dal teschio, ove fuggia la luna, l'upupa, né sentir raspar tra le macerie e i bronchi la derelitta cagna.
         Di derelitti ad Alquattain ce n'erano parecchi, ma solo per colpa di essi stessi, che, non potendo parlare, si affidavano alla pietra: "lapis loquax". Tra l'altro, giaceva negletto da immemorabile tempo un certo teatro, opera di un certo architetto, coautore con il padre di un certo "Massimo". Ma pare che non fosse adatto alle esigenze moderne, sicché si era preferito spianarlo tutto all'interno e chiuderlo all'esterno, affinché da solo desse spettacolo e parlasse da sé: anch'esso "lapis loquax", come "Petrappaulo", il cui essere di pietra è forse una fortuna, tanto che par che dica: "Caro m'è il sonno, e più l'esser di sasso".

Diego Lodato, Storia semiseria di un paese di cuccagna, in La Torre, a. XXVIII n. 16, Canicattì, 6 settembre 1981.






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