Nella letteratura sulla Grande Guerra sono pochi i giudizi favorevoli al generalissimo Luigi Cadorna, individuato, non sempre con obiettivita’, come unico responsabile degli errori di conduzione del conflitto e di altri aspetti ad esso collegati (decimazioni, sostituzione di generali poco graditi, inutili massacri).
Non intendo riprendere gli argomenti contrastanti nè approfondire le questioni militari e politiche di quegli anni tragici per aggiungere una goccia al mare di pubblicazioni esistenti. Rileggendo i libri scritti dal Comandante in capo del nostro Esercito mi sono formato un’opinione che non trascura i lati positivi, anche umanitari, del suo carattere messi in luce nelle molte pagine delle sue opere dedicate al ruolo ricoperto dall’ inizio del conflitto fino a Caporetto.
Fondamentale per la migliore comprensione di chi fu Luigi Cadorna è la lettura della prefazione al volume “Lettere familiari” scritta dal figlio Raffaele,generale di brigata,che comando’ militarmente il corpo volontari della liberta’ durante la II GM, in accordo con gli eserciti statunitense e britannico. L’operato del generalissimo, si legge, fu “ largamente influenzato dal clima di contrasto politico nel quale si volse la guerra: contrasto fra partigiani ed avversari della guerra, a tutt’oggi non ancora spento. E poiche’ mio padre fu assunto ad esponente dell’ intervento e dell’ intransigente volonta’ di vittoria, è ovvio che gli eredi del neutralismo,fossero essi giolittiani, cattolici o socialisti, che la guerra subirono od in qualche modo ed in varia misura avversarono, siano poco disposti a lusinghieri riconoscimenti, anche se questi rientrano nella pura verita’ storica “.
L’ analisi di questo scenario merita ampia discussione ed in parte Raffaele la conduce con molte citazioni, che comprendono quelle dello storico De Felice, di altre fonti italiane e straniere, per riequlibrare i pronunciamenti sul generalissimo.
E’ un tema ancora attuale che suscita molte attenzioni.. Nel corso delle mie ricerche sulle decimazioni ho avuto un grande moto di sdegno per il modo in cui furono imposte, senza tenere conto delle condizioni ambientali ed umane nella quale si trovarono le vittime.Alcune sentenze dei tribunali di guerra confermano questi aspetti contraddicendo le decisioni degli alti comandi militari.
Ma è lecito porre l’ interrogativo su quale sia il modo giusto per dirigere un conflitto tanto vasto da parte dei comandanti del nostro e degli altri eserciti in anni durante i quali la transizione tecnologica fra Ottocento e Novecento impose armi nuove usate con vecchie mentalita’ e tattiche militari superate ma che costituivano la parte preponderante della formazione di gran parte dei nostri generali, comprendendo anche Cadorna fra essi.
Sintomatico, per esempio, fu il contrasto con il colonnello Dohuet strenuo difensore dell’ uso dell’ arma aerea nella guerra. Ma era una fase in cui, malgrado i futuristi, l’ argomento non veniva digerito dai comandi che preferivano lanciare all’ assalto i fanti contro le tragiche barreiere dei reticolati. Ma questa diverrebbe una discussione tecnica che esula dalle finalita’ che mi sono prefisso di raccontare un episodio nel quale il Generale Luigi Cadorna appare nella piu’ umana dimensione di un uomo non indifferente al dramma familiare di chi aveva subito il dolore di perdere piu’ figli in combattimento.Qui si incontrano la sua cattolicita’ e il forte senso dello Stato autonomamente laico ma non tanto da disconoscere il sacrificio di chi aveva compiuto il proprio dovere “usque ad sanguinem” lasciando i congiunti nello strazio piu’ assoluto.
La Giovine Calabria, quindicinale della democrazia calabrese durante la Grande Guerra, pubblico’ un articolo con titolo “ UNA FAMIGLIA DI EROI CATANZARESI” nel quale si raccontava una storia che anticipa, sia pure in modi diversi, quella del soldato Ryan.
“ Sono morti sul campo di battaglia per la grandezza della Patria, come due eroi di Platea o di Maratona, Vincenzo ed Amodeo Pasquale, due fratelli, nati qui in Catanzaro e qui cresciuti nell’ infanzia dal padre loro, un altro calabrese che per tanti anni fu capitano medico nel nostro Ospedale Militare. Uno ha avuto la medaglia d’oro al valore, l’altro la medaglia d’argento e leggendo il motivo delle due ricompense all’ indomito coraggio ci pare di vedere i due eroi virgiliani Eurialo e Niso contro i Rutuli.
Amedeo Pasquale tre o quattro volte conduce all’ assalto i suoi soldati fedeli e prodi, finche’conquista il trincerone, ne fuga i difensori e vi pianta le sue mitragliatrici che li fulminano.
La ferita che gli sanguina non lo turba, egli incita i suoi soldati a resistere ad un ritorno offensivo degli austriaci, redire non est necesse, come il tribuno romano , cade ma si sorregge ancora per tenere ferma la vittoria, quando una nuova palla gli spegne per sempre i battiti del nobile cuore.
Par di vedere la statua di Eurialo , immortalato nei versi del sublime cantore Enea:
“ volvitur Eurialus leto, pulcrosque per ortus
it cruor, inque homeros cervix collapse recumbit,
purpureus veluti cum flos succisusaratro languescit moriens”
E l’ altro fratello Vincenzo muore sul Rombon con una palla in fronte, mentre il terzo fratello, Giuseppe, combatte sul Carso, viene fatto prigioniero, ma riesce coi suoi soldati a rientrare di notte
fra mille pericoli nella fila del suo Reggimento.
Tre fratelli che han dato alla Patria il sangue loro, sono tre colonne su cui sorge e alita fulgida la fiamma purissima dell’ amore di Patria.
Ben a ragione il Comandante Supremo, S. E. Cadorna, chiamava a se il superstite fratello Giuseppe e abbracciandolo amorevolmente gli disse << vada a fare compagnia alla degna sua mamma, alla quale tanto dobbiamo>>.
I fratelli Pasquale respirarono in questa Calabria le aure vitali e pare che da queste selve calabresi
essi respirarono le fiere energie della razza.
All’ aprirsi della guerra essi lasciano la vedova madre, disertano l’ universita’ e il Foro e partono per compiere il loro sacro dovere pieni di fervore entusiasta e di fede incrollabile.
Sono sempre tra i primi al fuoco , pare che sentano la volutta’ del pericolo, nel turbinio della battaglia i tre fratelli Pasquale avanzarono; essi dalle balze del Trentino sono passati alle doline del Carso e poi ritornarono sul Pasubio e poi, di nuovo, sul Carso: ovunque è accanita la lotta vi sono i tre fratelli Pasquale”.
Ecco l’ altro Cadorna, quello che riconosceva il valore contenuto nei gesti, anche estremi,dimostrativi dell’attaccamento al dovere che nella concezione del generale costituiva l’ elemento dominante della vita militare.
Chi furono i tre fratelli Pasquale?
L’ albo d’oro dei caduti della Calabria riporta solo le indicazioni di Pasquale Amedeo Sebastiano
di Ferdinando, decorato con medaglia d’argento al v.m., sottotenente medico nell’ 89 ° RF ( brigata Salerno) nato a Catanzaro il 21. Luglio 1891, morto il 10 Ottobre 1916 sul Carso per ferite riportate in combattimento.
Il libro del Nastro Azzurro non contiene altre notizie, segno che nel momento della raccolta dei dati i familiari dei fratelli Pasquale non erano piu’ rintracciabili.
Cio che mi è stato possibile sapere si fermava qui.
Ma sopravvenne un incontro fortuito su internet, che mi consenti’ di aggiungere altra conoscenza alla vicenda di Amedeo Pasquale.
Ricevetti una e-mail da Rosi Braga il 6 Gennaio 2007 ( che Befana inconsueta!), pronipote della medaglia d’ argento dottor Elia Longoni caduto il 10.10.1916 sul Carso.
Lo scritto riportava la testimonianza del caporale Arienti ,di Seregno come Elia, che riproduco :
Dal diario del caporale arienti 18 Settembre 1916 – Redipuglia
Rientriamo a Redipuglia per un periodo di riposo. Qui ho il piacere di
incontrare un mio paesano. Non sto a dire la festa che ci siamo fatti l'un
l'altro ed il piacere che proviamo a parlare di Seregno, dei nostri compagni
e della nostra vita.
4 Ottobre 1916
Il termine del nostro riposo è già spirato. Siamo di nuovo in cammino per la
prima linea. Riattraversiamo nuovamente Monte Sei Busi, scendiamo nel Vallone
e ci avviamo verso la trincea di prima linea a Quota 208. Ma, nella Dolina
Cappucci, appena ad una cinquantina di metri dalla linea, una granata scoppia
proprio sopra la nostra testa. Sono sbattuto a terra ma sono ancora incolume.
Mi guardo attorno: otto dei miei compagni giacciono a terra, uccisi dalle
schegge del proiettile e, fra questi, un compagno che era stato con me in Vai
d'Aosta; con me era partito per Brescia e con me aveva fatto finora la vita
di soldato. Povero compagno! La sua condotta morale non era stata troppo buona,
si professava ateo e miscredente e nemmeno quando la morte mieteva attorno a noi
vite giovani e fiorenti ed io gli parlavo di un 'esistenza ultraterrena e
d'un Giudice terribile e giusto, volle ricredersi. Ma la Misericordia di Dio è
infinita e forse, giudicando quell'anima, avrà tenuto calcolo del sacrificio
fatto compiendo il proprio dovere per la Patria. E ancora prima di arrivare
in linea, altri compagni feriti più o meno gravemente, sono costretti a
ritornare ed a recarsi al posto di medicazione. Col cuore sospeso, vedendo
continuamente cadere compagni attorno a me, proseguo il mio cammino, arrivo sano e salvo in
trincea e ringrazio il Signore del favore che mi concede con la sua visibile
protezione.
5 Ottobre 1916
Sono andato alla Dolina Cappucci a circa 150 metri dalla prima linea, ad un
tratto verso le 11 del mattino la nostra artiglieria sparò all'improvviso,
perché davanti alla nostra Dolina c'era l'inferno, meno male che non avevano
rotto i fili di comunicazione così io ho telefonato ali 'artiglieria di
allungare il tiro. In quel momento un soldato molto coraggioso, che non era
un portaferiti, ma era della mia compagnia, continuò ad andare in prima linea a
prendere i feriti e li portò al posto di medicazione del Tenente Longoni
Elia, subito lo hanno premiato con una medaglia d'argento, ed inoltre ha
accompagnato un soldato ferito da una pallottola esplosiva che aveva tutte due le braccia
penzolanti, mi hanno poi riferito che non gli era stata conferita la medaglia
perché aveva delle condanne. Cosa importano le condanne in confronto all’atto
coraggioso che ha compiuto? Se la meritava lo stesso la medaglia, anche
perché si era ferito.
6 Ottobre 1916
Siamo in linea da pochi giorni, quando una granata scoppia poco lontano da me
e seppellisce un mio carissimo amico, Carrara Ernesto da Mondovì con altri
cinque compagni. Col cuore straziato, incurante del pericolo a cui vado
incontro, mi slancio in loro soccorso. Il Sergente della Sezione, alcuni
soldati ed un altro mio carissimo amico che dovevo perdere più tardi si
lanciano contemporaneamente a me e riusciamo ad estrarre i seppelliti, tutti
vivi ancora se pure tutti feriti. Qualche minuto più tardi e le nostre
fatiche sarebbero state inutili e noi avremmo estratto soltanto dei cadaveri. Qui
devo dire che col tragico entrò anche il comico. Quando corsi in soccorso dei
seppelliti non avevo badato dove mettevo i piedi; e chi ci bada in simili
occasioni? Terminata l'operazione di salvataggio, mi accorgo che i miei piedi
portavano qualche cosa di attaccaticcio poco profumato. Mi guardo e mi trovo
sporco fino al ginocchio insomma è inutile che io vi dica di che cosa ero
sporco; ero entrato in una specie di gabinetto di decenza e portavo attaccato
agli abiti ed alle scarpe ciò che esso conteneva.
9-10 Ottobre 1916
C'è stata oggi una grande operazione bellica. Siamo stati tutti col cuore
sospeso come ogni volta che si deve uscire di trincea per qualche operazione.
L'oppressione che tiene in orgasmo continuo chi deve partecipare ad un simile
cimento è spiegabilissima. La vita, si sa è un gran dono al quale ci sentiamo
troppo attaccati, e quando la si deve mettere a repentaglio non si può non
tremare. Ciò è nella stessa natura delle cose, è umano. Anche Cristo
medesimo, nell'Orto di Getsemani, pregò il Padre Suo di allontanar gli quel calice. Il
bombardamento di questi due giorni è stato terrificante: una cortina di ferro
e di fuoco davanti a noi, dietro di noi, di fianco e sopra di noi. Come si
sarebbe potuto attraversare quella cortina di ferro e di fuoco, quello
sbarramento terribile che sconvolgeva il suolo, scuoteva tutti gli strati
dell'atmosfera e ci faceva impazzire? Sembrava assolutamente impossibile
passare non solo, ma anche uscir di trincea.
E ciò che sembrava impossibile si è avverato. Terminato il fuoco di
distruzione che le nostre artiglierie avevano compiuto sulle trincee
avversarie, appena le nostre artiglierie avevano cominciato ad allungare il
tiro, siamo balzati dalla trincea e, mentre ognuno tentava di avanzare come
poteva, l'artiglieria nemica è entrata in azione con un intenso tiro di
sbarramento. Ogni rialzo di terra, ogni buca, ogni più piccola asperità serve
in questi momenti per difendere il nostro corpo e per avanzare. Il frutto
della vittoria è stato un buon pezzo di terreno che il nemico ci ha conteso palmo a
palmo e che è rimasto in nostro saldo possesso, quantunque esso avesse
cercato con parecchi contrattacchi di toglierci la conquista. In questo combattimento
due armi della mia Sezione fra le quali la mia, sono state messe fuori uso.
Sono allora comandato di corvè e devo scendere per prendere acqua per le armi
roventi. Mi avvio alla volta del Vallone quando ad un certo punto, un rumore
spaventoso come di un treno che arriva a tutta velocità mi arresta spaventato
e mi butta a terra. Poco dopo un tremendo scoppio scuote l'aria e, un momento
dopo, una fitta tempesta di sassi, terra ed altro mi cade addosso. Credo per
un attimo che sia proprio venuto il mio ultimo momento. Improvvisamente la
tempesta cessa ed io mi ritrovo ammaccato sì, ma ancora vivo. Alzo la testa,
tutto è passato, tutto è calmo intorno a me, tutto come se niente fosse
successo. Ringrazio la Provvidenza dello scampato pericolo, mi alzo e
proseguo il cammino. Ma arrivato dove c'era il posto di medicazione, non lo trovo più:
al suo posto non rimane che una buca spaventevole. Il 380 che era passato
sopra la mia testa e che aveva lanciato quella tempesta di sassi, era scoppiato
proprio sul posto di medicazione e l'aveva distrutto. Quale penosa
impressione; non più tende, non più uomini, non più il mio buon paesano dottor Elia
Longoni che da vario tempo prodigava tutta la sua attività nella cura dei feriti che
scendevano dalla trincea. Con l'animo commosso sono stato un momento a
guardare. Vorrei almeno cercare i resti del Tenente Longoni, ma non ho
potuto.
Le armi della mia Sezione erano arroventate ed occorre che io porti in tutta
fretta acqua per i manicotti refrigeranti. Giro attorno alla voragine
spaventosa e mi avvio per eseguire il mio dovere. Rifornite le armi di acqua,
sono rimasto in trincea col moschetto in mano, poiché devo con gli altri
fanti difendere la linea dai contrattacchi nemici che si susseguono senza tregua. A
mezzanotte incomincia a tornare un po' di calma: il nemico si è accorto che i
suoi contrattacchi sono inutili e pare voglia rassegnarsi alla perdita delle
posizioni. Sono nuovamente comandato di corvè e scendo nel Vallone per
portare in trincea rancio e caffè. Durante la mia assenza, e precisamente dalla
mezzanotte alle cinque, la mia Sezione si sposta ed io, ritornato dopo le
cinque in trincea, non la trovo. Sono costretto a cercarla, mentre il tiro
delle artiglierie si riaccende. Trovo la mia Sezione alle otto, ma in che
stato arrivo! I bidoni non contenevano più una goccia di caffè e sono rimasto
meravigliato nel constatare che le pallottole degli shrapnel si sono limitate
a ridurre i bidoni in un crivello e non hanno crivellato me stesso. E di ciò
ringrazio la Provvidenza.
11 Ottobre 1916
A sera sono nuovamente di corvè.
Avrei voglia di andare in fureria a protestare contro il modo di fare del
furiere che continua a comandarmi di corvè anche quando non mi spetta; vorrei
dire al furiere di fare le cose con un po' di maggior giustizia e che uscisse
dalla sua tana profonda situata nel Vallone, dove neanche un 305 potrebbe
penetrare; ma non è questo il momento di protestare. I miei compagni
aspettano il rancio, e compio anche questa volta, silenziosamente l'ordine ricevuto.
Parto con cinque compagni.
Il diario, pubblicato piu’ volte a Seregno, termina qui.
Del dotto Longoni vennero ritrovati solo gli occhiali.
Ebbi altri documenti dal buon amico Rosi Braga, con quale scambiai quelli a mia disposizione, e in uno di essi vi era l’ immagine della tomba che accomunava Amedeo Pasquale ed Elia Longoni la cui commemorazione era affidata ad una pagina de “ La voce della Brianza”. Leggendola di comprendeva quanto l’ ufficiale medico caduto era stato vicino ai suoi pazienti nella vita civile svolgendo un’opera umanitaria che sembra motivata da letture deamicisiane.
Due uomini di parti lontane d’Italia, uniti nel lavoro di sostegno ai feriti ed ai morenti, erano volati via insieme, immolati da un’ unico colpo di cannone: La guerra non seleziona i valori ,l’ unica sua legge è la distruzione.
I corpi dei due valorosi medici furono accolti da un’ unica tomba: