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Canicattì com'era

di Giuseppe Alaimo


LI CANNULEDDRA E LA CUBA


Cannuolu, cannolo, è il dolce di pasta frolla riempito di crema di ricotta, gloria e vanto dei pasticcieri canicattinesi. Prende il nome dalla forma del fusto — appunto di pasta frolla — simile ad un tubo di modeste dimensioni. E, perciò, cannuleddru, risponde ad un tubo ancora più piccolo, di qualche centimetro di sezione e cannuleddra — il plurale — ad una serie di piccoli tubi di metallo che invece di essere riempiti di ricotta, sono «riempiti» d’acqua: insomma cannuleddra, i prolungamenti sporgenti una diecina di centimetri dai condotti principali che provvedono a far sgorgare l’acqua, per immetterla in una vasca.

Tale la funzione di “li cannuleddra» che per decenni — forse per secoli — e fino a cinquant’anni or sono, — diedero il nome al quartiere che sotto la Chiesa di San Calogero, è oggi occupato dalla Via Nazionale, a cominciare dallo innesto nella Via Rosolino Pilo.

Li cannuleddra alimentavano una vasca — un bevaio, cioè, nel quale cavalli, muli e asini, di ritorno dai lavori nei campi o dalle vicine miniere di gesso, si abbeveravano: il bevaio era posto quasi all’inizio della Via Nazionale e qui rimase fino al 1905 quando, per esigenze d’igiene (l’acqua straripando dalla vasca «inondava» la via Rosolino Pilo e le bestie calpestando il terreno circostante provocando la fanghiglia) venne abbattuto e rifatto più a nord — a circa la metta della Via Nazionale — dove rimase fino al 1950. Di nuovo demolito, il bevaio (e “li cannuleddra» venne ricostruito ancora più a nord, verso il cimitero ove esiste tutt’ora sebbene asciutto e inutilizzato.

La Cuba era una costruzione di gesso a cupola, risalente, forse all’epoca della presenza araba nel territorio di Canicattì. Anche questo nome indicava il quartiere di «li cannu-leddra» ma più a nord del primo, verso il cimitero, ed accanto ad un uffìcio daziario: nella Cuba si apriva la sorgente di acqua potabile che veniva quindi convogliata a «li cannuleddra» : in seguito, per alimentare il bevaio, l’acqua venne prelevata dalla sorgente di Savuco, una delle sorgenti che dissetava e disseta Canicattì.


LU CHIANU DI DELEU


Qualcuno usa ancora chiamare così il largo che si forma allo incrocio della Via Toselli, il Corso Vittorio Emanuele e la Via Rosolino Pilo. Chianu, piano, sta per piazza e Chianu di Deleu per distinguerlo dal chianu di la Palma, chianu di la Batia, ccc. (altri incroci di diverse strade). Ma perché chianu di Deleu?

Il nome venne attribuito al largo per la «presenza» sul luogo della famiglia Deleo, un’antica famiglia di cui i fratelli Vincenzo, Angelo e Nicolo erano i rappresentanti più cospicui, proprietari della maggior parte delle case delimitanti la piazzetta, Nicolo Deleo — lu zi Cola — persona educatissima, rispettosa e rispettata, gestiva una rivendita di tabacchi (ancora esìstente ma gestita da altri) la quale rivendita contribuì certamente a cristallizzare il nome della piazzetta.

Nei tempi passati lu chianu era popolato dai carrettieri e i carretti a trazione animale — a diecine — «parcheggiavano” nella piazzetta.. I carrettieri venivano ingaggiati con il loro mezzo dì trasporto per il carico della zolfo dalle miniere di Gallitano, Palumba e Bascìabò o per il trasporto delle merci in arrivo presso la vicina stazione ferroviaria.

Canìcattì — da sempre città industre ed operosa — si serviva appunto del carro trainato da muli per il commercio e le industrie; i carrettieri partecipavano attivamente alla vita e allo sviluppo degli stabilimenti cittadini (così come oggi i lambrettisti e i camionisti): gli sfarinati, le semole, dello stabilimento Trinacria; le paste alimentari dei pastifici S. Lucia, Acquanuova. S. Giuseppe, Castaldi; i saponi molli dei saponifici Di Benedetto, Ruoppolo, Narbone e Cariili; la calce idraulica degli stabilimenti di Cammalleri e Curto, dei fratelli Cuva; il ghiaccio in blocchi dello stabilimento Trinacria; le scatole di fiammiferi della fabbrica Faldetta; i laterizi della fabbrica dei «Tre ponti” pervenivano a mezzo dei carrettieri canicattinesi e dei loro carri in ogni paese vicino e lontano della Sicilia. Oltre cinquecento carrettieri, la maggior parte dei quali stazionavano in attesa d’impiego a lu chianu dì Deleu attorno al quale sì aprivano le botteghe dei bravi carradori, i meccanici dei mezzi di trasporto del tempo.


LA FUNTANEDDRA


Chi, oggi, vecchio o almeno anziano, non ricorda lì pìtratì e le risse tra ragazzi di «bande» rivali che avevano come «campo di battaglia» la Funtaneddra? un vasto spiazzale oggi delimitato da modernissimi palazzi del nuovo quartiere, tra la Via Kennedy e la Via Col. La Carrubba, era un tempo (e fino a qualche decennio fa), un susseguirsi di orti, che occupavano le terre poste a destra e a manca di un esiguo corso d’acqua che, partendo dal collettore principale di Canicatti — una cloaca — andava sempre più arricchendosi fino a formare un fiumiciattolo che finiva con l’affluire nella Valle di Naro.

Nel palazzo ove oggi è situata la Scuola Media G. Verga» (e dove aveva un tempo sede anche la Pretura) e prima della costruzione dei piani superiori di detto palazzo, esisteva un mulino adibito alla macinazione del grano, direttamente gestito dal Comune.

Tale mulino — uno dei primi in Sicilia — funzionava a vapore e quindi a carbone ed era pertanto, per quei tempi, una vera conquista della tecnica. Essendo l’unico mulino azionato con «crìteri moderni» rispetto a quelli antichi funzionanti con pale, per caduta d’acqua che veniva raccolta in apposite vasche, — le gabbie — il mulino era indicato come «la machina», la macchina, cioè, — vero e proprio gioiello sofisticato dell’ìndustria dell’avvenire.

La cloaca — un condotto ad arco di proporzioni abbastanza rilevanti che attraversava (ed attraversa) la parte bassa della città — sfociava appunto poco a sud del predetto mulino (oggi quasi a mezzo della stazione degli autobus) e — ancora più a sud — (quasi all’altezza dei palazzi che delimitano la continuazione della Via Oliveti) affiorava da terra una sorgente di acqua amara, fresca e limpida — la Funtaneddra — piccola fontana, cioè — che appunto per le modeste dimensioni veniva così chiamata per distinguerla dalle altre sorgenti ben più grandi di Gulfi, Corrice, Capo d’Acqua, Tre Fontane, Basciabò, ecc.

La Funtaneddra aveva una funzione di vita per una classe dì artigiani che lavoravano allora negli stazzoni.
Li Stazzuna erano piccole, povere «fabbriche» di manufatti in creta nelle quali “l’arte figulina» si riduceva alla «creazione» di quartare e bummula dì terra cotta e, il mestiere, a quello ancora più modesto di fare canala e pantofole — tegole e mattoni pieni, cioè — con impasto di argilla cotta nei forni.

L’acqua residua di la funtaneddra scorreva a valle e veniva utilizzata dagli ortolani — insieme alle «acque» melmose e grasse degli scarichi della cloaca (l’igiene era ancora da «inventare); e il tifo e le epidemie, a Canicattì, la facevano da padroni) per innaffiare finocchi, lattughe, cavoli ed altre verdure, belle grasse e apparentemente magnifiche ma veri e propri veicoli di morbo che mieteva vittime specie tra i bambini.

Oggi la funtaneddra è solo un vecchio ricordo, spesso una «battuta» a proposito della «spiaggia canicattinese» »: il mare di la funtaneddra.
La sorgente ricoperta insieme a molti ettari di terreno già orti, da materiale di riporto (che ha formato tutto il largo pianoro ove si svolge il «mercatino del mercoledì ») è scomparsa: l’acqua (insieme ai rifiuti liquidi del collettore spostato a sud ) si perde nel sottosuolo in rigagnoli che, scendendo sempre a valle, arrivano fino al Ponte Bonavia e di lì, congiungendosi ad altri rigagnoli che, un tempo, alimentavano i mulini delle contrade Russi, Cannarozzo, Molinello — oltrepassati la Serra di lu Strittu, rafforzano il «fiume) Naro — il torrente che da il nome all’intera vallata e che, proseguendo, va a sfociare nel mare di Palma.


LU BERSAGLIU


Il termine, indicativo della zona, è ancora usato: Lu Bersagliu è il quartiere che — grosso modo — estendendosi dal ponte di ferro, e lungo tutta la direttrice della Via Carlo Alberto per Delia, si sviluppa a destra di esso, di fronte alla Chiesa del Redentore, fino a perdersi nelle campagne di Bastianella.

E, tuttavia, anche se detto termine viene comunemente usato, non tutti - specie i giovani — e i giovanissimi — ne conoscono la ragione.

Lu Bersagliu, il bersaglio, è il punto da colpire con arma da fuoco, dopo aver preso la mira e, quindi — nel caso nostro — la parte per il tutto, il poligono di tiro, campo di esercitazione per spari di precisione: nel luogo cosi indicato, infatti, fino al 1943 — anno dell’invasione di Canicattì da parte delle truppe anglo americane, nella zona, esisteva un campo di tiro a segno nel quale i militari (carabinieri, agenti di polizia, e, in precedenza soldati) andavano ad esercitarsi per provare le loro capacità di tiro e l’efficienza di pistole e moschetti.

A lu bersagliu, prima della guerra del 1915/1918, si erano esercitati i soldati di un distaccamento permanente del 5. Reggimento di Fanteria, il cui grosso era di stanza ad Agrigento e, in seguito, i Carabinieri, gli Agenti di polizia del nucleo di P.S. di Canicattì (la nostra città fu sede di un Commissariato di Pubblica Sicurezza) e, infine, i militi e i giovani obbligati alle esercitazioni premilitari delle varie organizzazioni fasciste.

Durante i tiri — nei giorni dedicati appunto alle esercitazioni — la zona veniva sorvegliata e chiusa con blocchi di sentinelle che vietavano l’accesso ai civili: normalmente i tiri al bersaglio si svolgevano poco dopo l’alba, nelle prime ore del mattino.

Dopo il 1943, quando non esisteva più il distaccamento di soldati del 5. Fanteria, e le organizzazioni paramilitari fasciste si erano dissolte come neve al sole, tutta la zona venne lottizzata e cominciarono a sorgere le prime costruzioni private: oggi a lu Bersagliu è sorto uno dei più ordinati agglomerati di case popolari, un plesso scolastico discretamente attrezzato, un albergo-ristorante e numerose palazzine..


LI CANNOLA E LA NINFA DI BRUALINU


Abbiamo già avuto occasione di parlare di li eannuleddra la fontana di Via Nazionale — e quindi comprenderemo meglio perché con la denominazione cannola si indicasse la fontana che un tempo trovava posto a Borgalino: cannola perché i tubi che fornivano l’acqua, erano di sezione più grossa, di dimensione più consistente di quelli — pure di rame — dì la Cuba.

Fino a circa trent’anni or sono, nella attuale Piazza Roma — nel bel mezzo dì Brualino — a ridosso della Agenzia della Cassa Rurale S. Francesco (la benemerita banca ebbe già la sede in questo luogo, prima dello sviluppo che ha portato l’istituto di credito ad essere uno dei più accreditati istituti cittadini), vi erano appunto li cannola che alimentavano un bevaio in due vasche.
Una delle due vasche — la grande, oblunga — serviva per abbeverare gli animali dei contadini residenti nei quartieri dello Spirito Santo, Santo Edoardo e, parte, della Madonna della Rocca; l’altra, la più piccola, in pietra bianca, a conca, serviva quale ornamento e per abboccare a li cannola «quartare» e recipienti che le donne andavano a riempire.

L’acqua di sapore amarognolo — tiepida d’inverno e freschissima d’estate — era utilizzata, infatti, per gli usi domestici poiché, allora, a Borgalino, l’acqua di la pompa (quella cioè di Savuco e Grottarossa che dissetava la parte più bassa della cittadina) non montava nei quartieri a monte, limitandosi solo fino alla fontanella già esistente sullo spiazzo che si allarga avanti gli uffici dell’Enel: qui, l’acqua di la pompa, oltre alla fontanella provvedeva a far funzionare un mulino per la molitura del grano per conto terzi e una piccola fabbrica di ghiaccio di proprietà del sig. Gaetano Di Rosa — chiamato «lu Su Gaitanu» per la signorilità e il portamento.

L’acqua di Borgalino, invece, proveniva da una sorgente che si trovava nei pressi della contrada Orto Suor Maria (oggi, via) — a monte della Via XX Settembre. La vasca a conca dì lì cannola, era addossata ad una costruzione a «chiesa)’, alta circa quattro metri, in blocchi di pietra arenaria proveniente dalle cave di contrada Rìnazzi: al centro, in una nicchia, era posta una statuetta di marmo, una donna nuda {scandalosa per quei tempi), la cosidetta «Ninfa di Brualinu»: la vasca—unico blocco di pietra bianca incavato — proveniente dalle cave di lu Strittu — era protetta sul davanti da una inferriata.

L’acqua — abbondante, straripando dalla vasca e dal bevaio, defluiva verso la Via Colombo — sotto l’attuale complesso delle scuole «F. Crispi» e si perdeva negli orti circostanti di proprietà comunale, condotti in affìtto dall’ortolano Pietro Drogo. Ogni giorno, al crepuscolo, spesso a sera (le donne allora uscivano il meno possibile da casa e comunque non si facevano vedere facilmente in giro) una teoria di donne si muoveva da casa e con le quartare in equilìbrio sulla testa su un panno attorcegliato a corona — «andavano all’acqua»; una usanza che durò fino a quando le donne smìsero di portare le brocche sulla testa, impedite in ciò da una monelleria di ragazzi: una monelleria che diventò presto una abitudine.

I ragazzi brualinara, profittando della poca luce dei lampioni a petrolio che illuminavano (si fa per dire) }a piazza dì Brualinu, stendevano dei fili sottili di spago ad altezza di «quartara» ritta in testa, tra il muro del palazzo di Don Filippo Caramazza e il palazzo di Donna Rita Bordonaro: le «quartare», toccato lo spago, perdevano l’equilibrio e, cadendo, si frantumavano in mille giammarìte — i cocci dì creta — tra le imprecazioni delle povere donne costrette ad acquistare altre quartare. Finì cosi una usanza che era durata per generazioni, quella di andare all’acqua a li cannola.

Così anche le famiglie che in precedenza provvedevano in proprio all’approvvigionamento idrico, cominciarono a servirsi, come facevano già da tempo le famiglie più abbienti, del servizio degli acquaioli; certi Cutaia, Lo Drago o Viciu l’Uorbu. con i propri asini carichi di quattro recipienti di terracotta, le solite quartare infilate in cestelli di ferro o in canestri di bacchette» dì ulivo (li canciedddri) portavano l’acqua fino a casa a due soldi il carico (il soldo corrispondeva alla ventesima parte di una lira).

Una trentina di anni or sono, per ragioni igieniche (l’acqua straripante dalle vasche produceva fanghiglia e cattivi odori) e per una razionale sistemazione della piazza, la fontana di Borgalino — con li cannola e la Ninfa — venne demolita: il bevalo, deviata la conduttura, venne rifatto nella vicina Via Mons. La Vecchia; l’acqua eccedente, sempre in abbondanza, con una conduttura sotterranea, arriva oggi nella Via Cap. Ippoltto (angolo Palazzo Faldetta) o viene usata quale idrante comunale.


LA «NIVERA» DI SANTU RUARDU


Di una casa posta a tramontana, di un camerino buio. di una cantina, di un luogo comunque chiuso nel quale si prova una particolare sensazione di freddo, i canicattinesì usano dire: “E’ una nivera’ cioè che quel luogo è così gelido come se contenesse della neve ammucchiata.

«La nivera» era infatti il luogo di «raccolta» della neve. Mi riferisco a tempi ormai lontanissimi, a molto prima che sorgesse a Canicattì la «Trinacria» nel cui stabilimento, per lunghi anni, si procedette alla «fabbricazione» del ghiaccio in blocchi: parallelopipedi vitrei di circa un metro di lunghezza e dì 25,30 centimetri di spessore: una conquista, la fabbricazione artigianale del ghiaccio, della tecnica, dell’igiene e dello sviluppo commerciale di Canicattì.

Ebbene, prima della costruzione della Trinacria dietro la chiesa di Santo Edoardo — Santoruardu — alla fine della Via XX Settembre — nella parte più alta della città (oltre 500 m.s.l.m.) — fino al principio del secolo, vi erano due cave di pietra: da una si estraevano le pietre che, frantumate, venivano utilizzate insieme al gesso delle «Carcare» di Serra Pileri, per la costruzione delle case di abitazione di Canicattì; nell’altra — più piccola e già abbandonata, formante una serie di piccole grotte — veniva raccolta la neve che cadeva abbondante su Canicattì durante gli inverni freddissimi (i vecchi ricordano anche un certo cambiameneto climatico circa le stagioni).

Dalle strade, dai tetti che la soffice coltre di neve ricopriva nei giorni particolarmente rigidi, la neve veniva raccolta da parte di addetti che con carri e carriole, trasportavano i carichi nella « nivera »: quando la «materia prima» aveva riempito la grotta della cava, una volta pressata, veniva ricoperta di paglia e quindi tappata per preservarla dall’aria. Durava così fino alla prossima estate: nella stagione calda, estratta con pale e zappe, la neve, riposta in «coffoni» di buso o dì “bacchette» di ulivo, veniva venduta alle caffetterie e ai gelatai, perché, miscelata col sale, servisse per raffreddare i «pozzetti» per la manipolazione dei gelati e delle granite o perché in contatto col piombo di apposite serpentine, venisse utilizzata per gelare le bibite e le gazzose. Ovviamente era vietato il consumo diretto della neve raccolta: ma non tutti i gelatai rispettavano il divieto.


LA POSTA VECCHIA


Quando lunghe code di canicattinesi intasano gli sportelli della posta centrale o quelli delle altre tre agenzìe dislocate a Borgalino, all’Acquanuova o nella Via Rosolino Pilo — serviti da un nugolo di solerti impiegati (che tuttavia risultano ogni giorno in numero insufficiente) ; quando la posta in arrivo e in partenza si ammucchia a quintali nei reparti di distribuzione; quando giornalmente si effettuano, a miglia di versamenti per le tasse di circolazione autoveicoli e per gli abbonamenti alla radio-TV; quando è la volta del pagamento mensile di contributi, pensioni, assegni dall’estero, ecc. — qualcuno pensa a come andavano le cose fino ad alcuni anni fa: quando negli uffici postali in Piazza IV Novembre, in locali vecchissimi e cadenti (al loro posto oggi si erge maestosa la sede generale della Banca Popolare Siciliana), funzionava il servizio postale di Canicattì.

E tale ufficio era stato spostato in quel luogo da un locale situato in altro decrepito immobile della Vìa Cap. Ippolito: da tale sito era stato tolto quando si erano dovute demolire le fatiscenti costruzioni accanto al Teatro Sociale, per costruire il Palazzo che doveva ospitare la «Casa del Fascio» (oggi sede della caserma delle Guardie di Finanza).

E tuttavia anche la sede di Via Cap. Ippolìto non era stata la prima ad ospitare l’ufficio postale di Canicattì: la posta vecchia — prima e sino al 1915 — era situata nella Via Sen. Gangitano, alla fine di l’acchianata dì la scalinera, la salita cioè dei pochi, ripidi gradini che «sfociano» nella Via Poerio, all’angolo del Palazzo Gangitano.

La posta vecchia era un piccolo locale di pochi metri quadrati nel quale «due impiegati due», svolgevano il servizio di direzione e segreteria, rispettivamente il sig. Ignazio Caramazza e don Peppino Notarstefano; la corrispondenza (si può immaginare quanta!) veniva distribuita da due soli postini, don Stefano Marotta per tutta la zona bassa della città e un certo Pellitteri per tutta la zona alta: poche le lettere da recapitare, una utenza limitata alle tre banche locali, ai mulini, ai pastifìci, a poche famiglie che avevano i figli sotto le armi per ragioni di leva. Fu appunto la crescita improvvisa per il richiamo massiccio dei militari partecipanti alla prima guerra mondiale — e il conseguente aumento di corrispondenza tra i soldati e le famiglie — a far aumentare prima il numero dei dipendenti e, quindi, a fornire di una sede diversa l’ufficio postale: l’ufficio certamente più «comodo» per l’ubicazione, venne trasferito come si disse, nella via C. Ippolito in un locale nel quale in precedenza si effettuava la cernita della farina — indicato dai canicattinesi d’allora lu barattu: «’posta vecchia» senza altro così come la sede successiva di Piazza IV Novembre; ma la vera, l’unica posta vecchia, assurta alle glorie della cronaca, rimase per i canicattinesi, quella della Via Sen. Gangitano, una denominazione che ancora il tempo non è riuscito a cancellare del tutto, una indicazione di luogo che alcuni fra gli anziani ancora usano se non altro per distinguere la «scalinera di la posta vecchia» di la «scalinera» per antonomasia (scalinata di San Biagio - Via Mordini).


LA PUESITA


Puésita è il termine siciliano corrispondente a polizza, uguale a ricevuta. Si usava (oggi è caduto in disuso) per indicare sia le puésite che alcuni «indovini» ambulanti distribuivano per pochi centesimi alle ragazze da marito, ai giovanotti in fregola, alle maritate, ecc. che avevano desiderio di conoscere il loro futuro (la puésita veniva estratta da una scimmietta, da un pappagallo o da un corvo ammaestrati che da una scatola, con la zampetta o con il becco, «prelevavano» un foglietto di colore diverso a seconda del destinatario), sia per indicare la strisciolina di carta, ricevuta della corrispondente giocata settimanale del lotto.

Un banco del lotto trovava appunto ubicazione nella Vìa Lepanto — la strada che iniziando dalla svolta della «Cappella dei Peccatori) termina nella Via Milano, a valle della Chiesa di Santo Nicola. Alla metà della Via Lepanto ed all’incrocio di essa con la Via Solferino, esisteva una botteguccia gestita da certo Munna il quale aveva avuto la concessione del gioco del lotto: il quartiere venne (ed ancora oggi gli anziani fanno uso del termine) indicato come la Puésita (come era uso, la parte per il tutto, una sineddoche) — in funzione della ricevuta della giocata dei numeri estratti settimanalmente nelle «ruote» d’Italia.

Per fare qualche raffronto con i tempi e il valore odierno del denaro — e quello molto più limitato che circolava in Canicattì allora, — mi pare sia opportuno ricordare che ambi, terni, quaterne e cinquine si giocavano dietro il versamento di due soldi (dieci centesimi), cinque soldi (25 centesìmi), e dieci soldi (mezza lira) : solo alcuni giocatori indicati a dito come temerari arditi, imprevidenti, giocavano una, due, cinque ed — eccezionalmente — dieci lire: una cifra sbalorditiva questa, corrispondente (prima della guerra mondiale del 1915) a dieci giorni di paga di un giornaliero di campagna. La lira avevaj infatti, un valore enorme e una capacità di acquisto altissima: ma pochissimi erano i fortunati detentori di moneta mentre la maggioranza dei canicattinesi era costretta a far salti mortali per potere giornalmente conciliare il pranzo con la cena.


LA POMPA DI MARINO


Più volte su queste paginette di «CANICATTTI' COME ERA » abbiamo avuto l’occasione di incontrare il termine «pompa» con pompa veniva indicata la fontanella pubblica (e, qualcuna esiste ancora), una colonnina di ghisa che si elevava su un modesto spiazzo quadrato e dalla quale fuorisciva a mezzo di un piccolo tubo (cannuolu) l’acqua. Alla pompa si andava ad attingere l’acqua per gli usi domestici quando ancora la città era sprovvista della rete idrica.

Di «pompe» — il nome forse deriva dal verbo pompare sebbene l’acqua arrivasse alla pompa per caduta e non per spinta — ve ne erano in ogni quartiere appunto per servire il maggior numero degli abitanti delle varie zone e ciascuna veniva indicata con un nome diverso, rispondente al quartiere medesimo (pompa di Sammìlasi), di una cappella vicina (pompa di lu Buencunsigliu), oppure dal nome di una persona che per l’attività specifica esercitata era a tutti nota: la pompa di Marinu.

Don Angelo Marino, nello spiazzo formato dallo incrocio tra la Via Perez e la Via Lepanto, proprio di fronte ad una edicola votiva, gestiva un forno nel quale si confezionava ottimo pane: nello spiazzo trovava appunto posto, la fontanella pubblica, indicata con il cognome del fornaio. I fornai diretti erano pochi nei tempi ai quali facciamo riferimento poiché, in genere allora, il pane veniva confezionato in casa e quasi sempre infornato privatamente o, sempre confezionato in proprio — veniva mandato al forno per la sola cottura: li guasteddri -pani dì larghe proporzioni — trovavano poi posto in casa in apposite cassapanche.

Altri fornai diretti (vi si confezionava il pane e vi si vendeva direttamente ai consumatori così come, oggi, in quelli di Paci, Ragona, Arrostuto, ecc. ) erano quelli rinomati di don Filippo Granata ubicato al principio della Via Marconi, nella piazzetta degli attuali uffici dell’ENEL; di don Cola Granata nella Vìa XX Settembre e dei fratelli La Cara, nel Corso Vittorio Emanuele: i fornai avevano un nome noto a tutti essendo quella specie di artigianato specializzato, largamente apprezzato dalla popolazione.

Oltre alla guasteddra, comunissima e giornaliera, specie in occasione di feste determinate venivano confezionati lì muffuletta (8 Dicembre), li purciddrati (pani farciti con fichi secchi che si consumavano durante le feste natalizie) e sempre giornalmente, li cliichireddra, piccoli pani a forma di mezzaluna che, manufatti in semola, anzicchè con farina, avevano un costo superiore rispetto a lì guasteddri.


LU PARCU DI LA RIMEMBRANZA


La piazza dove oggi, di mattina, si svolge il mercato al minuto della frutta e della verdura, e dove, nel pomeriggio, gli autisti trovano spazio per posteggiare le loro macchine. — a ridosso del palazzetto delle poste e dei telefoni e avanti il palazzo delle scuole Medie Verga, — fino al 1943 era occupato da un piccolo boschetto di alberi di pino silvestre, pomposamente chiamato «Parco»; un parco di modeste dimensioni, ma tuttavia con diecine di alberi, tanti quanti i Caduti di Canicattì nella prima Guerra Mondiale soldati, sottufficiali, ufficiali di ogni arma, immolati nelle trincee carsiche. sul Piave, al fronte italo-austriaco: Parco, quindi, della Rimembranza.

Un ricordo, un tributo alle giovani esistenze, un albero per ogni Caduto che i reduci — costituitisi in Associazione Nazionale dei Combattenti, Reduci e Mutilati — vollero piantare verso la fine del 1919 a memoria dei commilitoni meno fortunati che non ritornarono più a Canicattì avendo perduta la vita sul Sabotino, sul Podgora, a Gorizia.

Il Parco della Rimembranza — tra il Largo Savoia e il Largo Aosta, dunque — era una piccola selva, un cimitero senza cadaveri, con sui tronchi dei pini un tabellino smaltato sul quale era indicato il nome di ciascun Caduto. Lo spazio comunale era stato circoscritto da una robusta inferriata che dalla parte prospiciente il Largo Savoia (S. Diego) si alzava per tutto il perimetro su un muretto in blocchi di pietra bianca, interrotta di tanto in tanto da agili pilastri in ghisa modellata alla sommità dei quali era posto un globo elettrico che veniva acceso in occasione di feste patriottiche.

Un cancello pure in ferro, finemente lavorato da esperte mani di artigiani locali, sorretto da due splendidi pilastri in pietra bianca dura, dava l’accesso al Parco della Rimembranza che, proprio sul davanti, oltrepassato l’ingresso «ospitava» il Monumento alla Vittoria detto comunemente Monumento ai Caduti.

Il luogo reso quasi sacro per la «rimembranza che riusciva a suscitare — tenuto e curato dagli associati della locale sezione di ex combattenti, era giornalmente mèta dei familiari delle vittime della guerra, degli alunni delle scuole in visita di omaggio, ei in determinate occasioni, delle autorità politiche e militari durante le molte, moltissime «parate» del ventennio mussoliniano che seguì il primo dei conflitti mondiali.

Nel 1940 durante la seconda guerra mondiale, il Parco della Rimembranza, per la nota raccolta dei materiali ferrosi occorrenti per i bisogni bellici venne privato della ringhiera che, demolita, fu inviata a Torino. L’allora podestà Avv. Angelo La Vecchia provvide tuttavia a far installare in sostituzione una ringhiera in cemento armato: il Parco della Rimembranza rimase perciò ancora protetto.

Durante il conflitto, però, un pò perché l’Associazione Combattenti aveva da svolgere altri compiti più immediati (assistenza ai nuovi giovani sotto le armi), molto per i danni provocati dalle incursioni degli aerei anglo americani su Canicattì. molti degli alberi del Parco andarono perduti. Dopo il 19435 ad occupazione consolidata del Sud Italia da parte delle truppe anglo americane, gli amministratori comunali della Giunta socialcomunista, ritenendo erroneamente che il Parco della Rimembranza fosse opera del regime fascista (e confortati dal fatto che numerosi alberi di pino erano da considerarsi irrimedabilmente perduti) decisero di smantellare definitivamente il Parco. Abbattute tutte le piante (la legna venne venduta a privati) venne anche trasferito il Monumento ai Caduti che prese posto nella aiuola di Corso Umberto, quasi di fronte all’entrata del palazzo municipale e che a sua volta — durante gli ultimi anni dei ventennio fascista — aveva ospitato un cippo marmoreo sormontato da un mezzo busto bronzeo dedicato a Alfonso Arena, «martire di Canicattì» per la causa fascista.

Il monumento, ultimamente è stato arricchito da altri ricordi patriottici da parte delle associazioni combattentisti-che canicattinesì: il Parco, invece, non è che uno sbiadito ricordo di alcuni anziani, neppure una indicazione come è successo per altri luoghi della vecchia Canicattì.

Giuseppe Alaimo da: "Canicattì come era" 1979


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