[1]
LA PROTESTA DELLA CORTE GIURATALE
Non ha importanza conoscere chi fossero nel 1645 i Magnifici Giurati dell’Università che tacevano parte della Corte. Certo furono autentici figli di un secolo permeato di spagnolismo al punto tale che i Bonanno arricchivano il loro stemma col motto « Nec sol per diem nec luna per noctem », come a dire che non s’era mai visto nulla di più splendido.
Per antica tradizione i Giurati che intervenivano col Capitano nella Chiesa Madre per assistere alle funzioni solenni avevano diritto, oltre ai seggi speciali ed alla scorta dei Mazzieri, anche all’omaggio dell’incenso.
Fu proprio durante una di queste funzioni che si accorsero d’un particolare che provocò le loro lagnanze. L’Arciprete usava, per buttar loro in faccia le nuvolette profumate, un incensiere di volgarissìmo rame.
Offesi nella loro dignità, i Magnifici Giurati chiedono soddisfazione. E l’Arciprete è costretto a spiegare che la Parrocchia era tanto povera da non possedere alcun incensiere d’argento.
Non ci è possibile sapere la fine di questa curiosa vertenza, ma con un po’ di fantasia possiamo immaginare che gli stessi Giurati abbiano provveduto a gravare il bilancio pubblico di qualche onza d’argento a favore della Chiesa.
In fondo avrebbero fatto un piacere, oltre che a sé stessi, anche ai loro successori.
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ORDINANZE CURIOSE
Un « bando e. comandamento » promulgato dal feudatario nel 1656 faceva ingiunzione al Capitano di Notte di battere le campagne del territorio per estirpare « li scorzoni », cioè i serpenti. Che questi fossero numerosi nessun dubbio, resta a vedere piuttosto quale fu il risultato di questa battaglia condotta dalle forze municipali.
Tra gli ordini curiosi che un tempo si facevano con la più grande serietà non va dimenticato un bando del 1694 emesso questa volta dai Magnifici Giurati. Dovendosi riparare d’urgenza il ponte di San Diego, fu ordinato a tutti i cittadini di concorrere ai lavori portando sul posto le pietre necessarie.
Cosi, una volta tanto, lo zelo dei cittadini fu proporzionato al numero ed alla grandezza dei sassi forniti.
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AL TERREMOTO!
Quello che successe l’il gennaio del 1693 non fu tanto presto dimenticato. Un terremoto così torte, a memoria d’uomo, non c’era mai stato. Verso le ore diciassette, quando era quasi buio, una fortissima scossa fece scappare quanti erano in casa — e lo erano quasi tutti. Ma ci fu di peggio. Alcune case (nel quartiere di Giarratana) erano crollate. Supponiamo che ci furono parecchi feriti, e forse anche qualche morto, ma certo per merito del glorioso S. Diego i danni non furono più gravi. E dopo qualche giorno, luttuose notizie furono apprese dagli spauriti Canicattinesi.
Paesi interi completamente rovinati, Catania distrutta.
Ma il popolo, a poco a poco, dimenticò completamente questo episodio fino a che altre notizie catastrofiche, dopo una lieve scossa, annunziarono nel 1908 la distruzione di Messina e di Reggio Calabria.
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COME CANICATTI' NON EBBE LA SCUOLA PUBBLICA
Nel 1704, sotto il Principe don Filippo Bonanno Marini, per la saggia amministrazione dei Giurati esisteva in Comune la somma non indifferente di onze 2.280.
Senonchè, invece di servire per la pubblica gestione, questo denaro fu richiesto dal Principe e gli Amministratori non ebbero il coraggio di negarglielo.
In compenso il Principe promise d’istituire una scuola pubblica e di stipendiare un maestro.
Ma questa promessa fu totalmente dimenticata anche dai suoi successori. I Cittadini, per sentire parlare di una scuola pubblica, dovettero aspettare fino al 1816, anno in cui il Decurionato (che aveva sostituito il Collegio Giuratale) decise di stanziare onze 150 per la pubblica istruzione: « incominciando dalle scuole basse, sino a tutta l’arte Oratoria, chiamata Rettorica ».
Nonostante questo una scuola regolare, per quanto rudimentale, non cominciò a funzionare che nel 1820. Ma non dovette esserci un eccessivo concorso, a giudicare dal fatto che nel 1855 il Maestro Comunale (un Sacerdote) dava lezione soltanto a dieci scolari.
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DUPLICE LUTTO IN CASA BONANNO
II 9 ottobre 1708 arrivò la salma della Principessa Isabella Morrà moglie del Principe don Francesco Bonanno Del Bosco, morta giovanissima a Vicari. Dopo solenni funerali la salma fu tumulata nella tomba di famiglia sorta nella Chiesa dello Spirito Santo per volere del Duca Giacomo, alla presenza di P. Giacinto da Palermo, Vicario dei Frati Minori.
Senonchè, per fatale coincidenza, meno di due mesi dopo e cioè il 4 dicembre, moriva in Castello la piccola Maria Bonanno e Morrà, in età di circa due anni.
Anche la bambina fu collocata nello stesso sepolcro.
Il Principe don Francesco, rimasto vedovo, sposò qualche anno più tardi Anna Maria Filangeri dalla quale ebbe due figli: don Giuseppe Principe di Cattolica e don Emanuele Duca di Misilmeri.
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CEREI
Anche Canicattì, come Racalmuto ed altri paesi, ebbe i suoi Cerei, sebbene solo per qualche anno.
Ecco come andò la faccenda.
Nel 1720 alcuni pecorai costruirono un Cereo che ebbe l’onore di accompagnare in processione la statua della Madonna Immacolata. L’esempio tu seguito dai bordonari — allora molto numerosi — che l’anno seguente si presentarono con un altro Cereo.
In processione la precedenza spettava, per diritto di priorità, ai pecorai. Ma i bordonari, forti del loro numero, « si misero in brio » (cosi si esprime un contemporaneo) cercando di sopraffarli.
E’ facile immaginare cosa può succedere quando i bordonari si mettono in brio. Ma per fortuna successe solo che i pecorai, prudenti o piuttosto minori per numero, preferirono ritirarsi non senza prima aver dichiarato che non per questo rinunciavano ai loro diritti.
E dopo questo tentativo poco incoraggiante, non si ha più notizia che questa gentile usanza sia stata ripristinata.
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L’ESECUZIONE DEI BRIGANTI
II mese di maggio del 1727 rimase a lungo nella memoria del popolo per l’eccezionale esecuzione di sette briganti. Questo avvenimento commosse talmente la pubblica opinione da giustificare una lunga relazione anonima inserita nell’archivio della Confraternita degli Agonizzanti.
Fra le varie cariche del Principe don Francesco Bonanno c’era anche quella di Vicario per l’estirpazione della delinquenza che allora imperversava in Sicilia, specie nelle campagne.
Il Principe fece del suo meglio e sette briganti, tutti della stessa banda, furono catturati. Per sua volontà, invece che a Palermo, il processo si svolse in Canicattì dove per l’occasione si trasferì la Gran Corte Criminale.
I condannati, tre giorni prima dell’esecuzione, furono condotti in Castello. Due religiosi e due civili della Compagnia dei Bianchi ebbero l’autorizzazione di assisterli.
Ai Bianchi si associarono i confrati di M. SS. degli Agonizzanti, che per la prima volta potevano esercitare questo ambito privilegio. Per tutti i tre giorni (in due riprese, perché le esecuzioni avvennero nei giorni 5 e 17) nella Chiesa degli Agonizzanti si svolsero delle funzioni religiose con grande concorso di pubblico, mentre lo stendardo della Confraternita veniva esposto nella piazza principale. Durante l’esecuzione (l’anonimo cronista non precisa il punto dove furono piantate le forche), l’opera dei confrati si esplicò innalzando pubbliche preghiere e
raccogliendo elemosine per la celebrazione delle Messe.
Ed anche quando queste ed altre esecuzioni posteriori furono per tutti un lontano ricordo, questa pia usanza non venne mene. La « Messa dell’impiccato » continuò ad essere celebrata all’alba — era la sua caratteristica — nella Chiesa degli Agonizzanti.
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UN FEUDO ALL’ASTA
Non era facile che un feudo, un vero feudo, fosse messo in vendita « cum verbo regio ».
Il feudo in questione era quello di Grasta nella Contea di Caltanissetta di proprietà di don Giovanni Luigi Moncada Principe di Paterno, e fu messo in vendita nel 1767 su istanza dei creditori.
Questo feudo, del quale manca l’estensione nel documento originale, è descritto confinante col feudo di Marcato Bianco, feudo di Gabbiarossa, Baronia di Sommatine e feudo di Fiorella.
Il bando di vendita, oltre che a Palermo, fu divulgato in Piazza Armerina, Caltanissetta, Canicattì, Girgenti, Caltagirone, Castrogiovanni, S. Cataldo e Castronovo.
L’offerta maggiore fu presentata da don Francesco Siragusa che offrì 14.000 onze per persone nominande. Cosi il feudo di Grasta fu aggiudicato per metà ai Bonanno e per metà agli Adamo.
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UNA SEPOLTURA DIFFICILE
Verso la fine del secolo XVIII, in una serataccia d’inverno, una di quelle sere che il soffio violento della gelida tramontana obbliga a star tappati in casa vicino al braciere, un gruppo di guardiani del Castello vegliavano nella sala d’armi aspettando che rientrasse il Vice Castellano, ancora in giro per la solita ispezione.
Ad un tratto il silenzio notturno è rotto dal rumore secco di due colpi d’arma da fuoco. Le guardie sì precipitano all’aperto con le lanterne e scoprono a breve distanza dal portone il Vice Castellano già cadavere. Non possono far altro che trasportarlo nel salone di guardia, trasformato per l’occasione in Camera Ardente. La mattina dopo, poiché anche ad un assassinato bisogna dar sepoltura, sia i parenti che i compagni se, ne interessano subito. Ma qui cominciano le sorprese. Alla Chiesa del Purgatorio, la più vicina al Castello, si rifiutano di accogliere la salma. La ragione? Il Vice Castellano era conosciuto come un pessimo elemento: ubriacone, immorale, bestemmiatore e miscredente. Tutte le Chiese lo rifiutano, ed i Sacerdoti sono indecisi aspettando istruzioni dall’Arciprete.
La situazione comincia a diventare imbarazzante, finché l’Arciprete stesso ne ordina l’immediata sepoltura nella Chiesetta periferica di Santa Lucia. E qui il Vice Castellano, ormai dimenticato da tutti, dovrebbe trovarsi ancora.
Con questa saggia risoluzione il paese evitò di avere uno spettro che avrebbe aumentato il numero di quelli già esistenti, il più importante dei quali era ed è il gigantesco « Cirrtmbambulu » che si mostra ogni tanto poggiando un piede sulla Chiesa della Badia e l’altro sulla Chiesa di Santa Barbara.
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IL BARONE DELLA FAME
Una volta tanto questo sopranome, che sembra dispregiativo, non lo è affatto. Anzi la sua origine è legata ad una leggenda gentile che ho appreso dalla viva voce di una vecchia popolana.
Dunque, fra le varie proprietà del Barone Adamo c’era una « chiusa » vicina all’abitato; corrispondente all’incirca all’area dell’attuale Cimitero. Ci fu un anno di carestia; la povera gente non aveva di che sfamarsi ed anche le fave, per l’inclemenza del tempo, venivano su grame e stentate. Solo nella « chiusa » del Barone le piantine erano cariche di baccelli verdi. La notizia si sparse subito in paese, Si sa che le fave fresche, in mancanza d’altro, sono un ottimo alimento. Ma il guardiano vigilava contro i furti, e quindi nessuno poteva avvicinare quel ben di Dio. Allora il Barone lo fece chiamare e gli ordinò di dar libero campo a tutti. E’ facile immaginare quello che successe. Il campo in poche ore fu saccheggiato, ma i baccelli stroncati si riproducevano miracolosamente durante la notte, e ce ne furono per tutti fino alla raccolta. In più, la quantità delle fave trebbiate fu tanta che i capaci magazzeni del palazzo baronale furono appena sufficienti per contenerle.
E per gratitudine popolare il Barone Adamo fu chiamato il Barone della Fame.
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LA DIMOSTRANZA
La « Dimostranza » (o processione figurata, come traduce il Pitrè) si faceva la Domenica delle Palme, e voleva ricordare l’ingresso di Gesù in Gerusalemme. Tolgo da un’antica cronaca la descrizione sommaria di una di queste funzioni avvenuta nel 1808 e che se proprio non fu l’ultima, fu sicuramente una delle ultime:
« Uscì — scrive l’anonimo relatore — dalla Chiesa Madre don Giuseppe Lombardo figlio di don Francesco d’anni cinque circa a cavallo d’un somaro, rappresentando la figura di Gesù Cristo, ed altri dodici giovanetti d’età di dieci anni circa vestiti col cammiso, che rappresentavano li dodici apostoli, accompagnati dal popolo e preceduti dal Clero e Confraternità, girarono in processione per il paese ».
E’ curioso il fatto che anche a Catania, come ci informa un recente studio su questa Città, era praticata sino alla fine del secolo XVIII, una cerimonia simile.
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UNA MORTE ED UN MATRIMONIO
Nel 1814 mori il Barone Gaetano Adamo e la notizia commosse un po’ tutti, ma soprattutto il popolo.
La sua figura massiccia era ben nota, e non solo per le ricchezze che possedeva. Uscito da una famiglia nobile, si era schierato col popolo che in quegli anni cominciava ad avversare il morente sistema feudale, facendo ottenere dopo lunghe liti l’abolizione di alcune tasse pagate ai Bonanno.
Dopo solenni funerali, fu sepolto nella tomba di famiglia. Non avendo figli il titolo passò a suo nipote Antonino, ma le sue ricchezze andarono in massima parte ad una nipote della moglie che aveva in casa, anche lei una Turano di Campello.
Ad una ragazza in tali condizioni, naturalmente, le proposte di matrimonio non potevano mancare. Fra i tanti pretendenti s’avanzò uno dei figli del Principe don Giuseppe Bonanno che sebbene in difficoltà economiche, era ancora uno degli uomini più influenti del Regno.
Ma anche questo partito fu respinto e la scelta cadde su don Francesco Bartoccelli da Caltanissetta, uno dei figli del Barone di Altamira.
Fu cosi che un ramo di questa famiglia si stabilì a Canicattì nell’antico palazzo degli Adamo ed i discendenti di don Francesco, imparentatisi con altre famiglie locali, non furono più considerati forestieri.
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LA MORTE DEL CAPITANO DELLA MAESTRANZA
La Domenica in Albis del 1814 si annunzio, come al solito, col suono prolungato delle campane. Era la Festa dell’Immacolata. Per tutta la notte s’erano uditi gli sparì dei mortai prelevati all’Armeria del Castello, come per antica consuetudine.
La Corporazione della Maestranza s’era già riunita nella Chiesa degli Agonizzanti per eleggere il nuovo Capitano, (che risultò Mastro Diego Accardo) e per prendere gli opportuni provvedimenti tanto per il « giuoco della bandiera » che per la Processione. Il nuovo Capitano aveva già pronto il cappello a cilindro e l’abito dì gala, ed il Castellano neanche questa volta avrebbe rifiutato di consegnare ai Maestri le pesanti lance perché facessero degna scorta alla statua della Vergine- Tutto procedeva bene, ma era destino che un’orribile disgrazia dovesse rovinare la festa.
Dunque, uno di questi cannoncini o mortai che fossero, era situato per l’occasione di fronte la Chiesa di Santa Rosalia. La strada, in questo punto, si allarga prestandosi molto bene al « giuoco ». Per puro caso o forse per imperizia dell’* Artigliere », uno dei colpi sparati dal cannoncino andò ad investire, uccidendolo all’istante, il povero Capitano che alta testa dello «Squadrone», dirigeva le fasi del « giuoco della bandiera ».
E’ facile immaginare lo scompiglio che ne seguì. La festa, naturalmente, andò a monte. Il Castellano, dopo quella disgrazia, non diede più il permesso di prelevare dall’armeria i mortai e le lance.
Negli anni successivi si sostituirono gli spari con mortaretti. Le lance e le alabarde si continuarono a portare in processione dalla Maestranza, ma gli originali furono sostituiti da copie in latta e ferro battuto.
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SACCHEGGI E SOLDATI IN PROCESSIONE
Non è facile assistere al saccheggio di una casa signorile, ma vederne saccheggiare due nello stesso giorno è un avvenimento da raccontare, dopo tanti anni, ai nipotini increduli.
Eppure questo avvenne il 12 novembre 1820. Si era in piena rivoluzione, e tutto può accadere in tali periodi.
Nel pomeriggio di quel giorno i dimostranti si riunirono alle Botteghelle ed assaltarono la vicina casa del Prosegreto don Pietro Palumbo divertendosi ad ammassare nella sottostante strada tutti i mobili e bruciarli.
Non contenti di tale sfogo proseguirono verso Borgalino, ripetendo la stessa operazione ai danni di don Filippo Caramazza.
Altri saccheggi e tentativi di saccheggio si verificaro-no nei giorni seguenti, finché il paese non venne presidiato dalle truppe che vi riportarono l’ordine.
E per il Capodanno del 1821 i cittadini poterono assistere ad uno spettacolo insolito. La piccola statua di Gesù Bambino che è portata quel giorno in processione era seguita da duecento soldati perfettamente inquadrati, non sappiamo se per sentimento religioso o per un tacito avvertimento.
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LE MONACHE CAMBIANO CASA
Dovette essere un temporale fuori del comune, da impaurire non soltanto le monache, quello che si scatenò nell’inverno del 1823. E, supponiamo, dovette recare dei danni non soltanto al Monastero che ne risentì le maggiori conseguenze perché fu colpito in vari punti dai fulmini. Anche in Chiesa crollò l’abside, seppellendo sotto le macerie l’Altare Maggiore.
Urgevano lavori di restauro. Immaginate un po’ l'imbarazzo delle monache che avrebbero dovuto subire per qualche tempo l’interferenza di squadre di muratori.
Era opportuno cambiare alloggio temporaneamente. Per combinazione il vecchio stabile dell’Ospedale dei Poveri era vuoto. Le monache domandano ed ottengono il permesso di trasferirvisi.
E di notte, al lume delle torce, si snoda per le strade buie una strana processione di portantine degna del pennello di un Caravaggio.
E così, per poco tempo, l’austera Regola Cossinese continuò ad essere osservata nell’antico fabbricato che era stato Ospedale e doveva diventare Collegio di Maria.
Per soli due anni, dopo che con lo stesso metodo delle portantine le monache fecero lo stesso tragitto in senso inverso.
Ed è così spiegato l’anacronismo architettonico che interessa l’abside della Chiesa del Monastero col suo neoclassicismo povero che si differenzia dal resto, ed è tale da farci rimpiangere l’architettura originale rovinata irrimediabilmente da quel lontano temporale.
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UNA SETTIMANA DI PENITENZA
Una Missione che ebbe un grande successo fu quella che fecero i Redentoristi nel marzo del 1823, durante la Quaresima. Non s’era mai vista lauta adesione spontanea alle pratiche ed alle esortazioni di quei bravi religiosi. In tre Chiese (Madrice, S. Domenico ed Agonizzanti) per una settimana si avvicendarono le funzioni per persone di tutte le età e di tutte le classi sociali.
L’ultimo giorno ci fu una grande processione di penitenza con un concorso popolare mai visto ed i confratelli dì tutte le Congregazioni, come se fosse il giorno della Passione, portarono in testa la corona di spine.
L’indomani di questo spettacoloso corteo salmodiante, i Missionari partirono. Ed un cronista contemporaneo commenta: «finalmente ci hanno lasciato in pace».
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STORIA BREVE DI UN PALAZZO
Maria Alfonsa Gangitano, una dei tanti figli di don Luigi, andando sposa a don Emanuele La Lomia ebbe in dote alcuni magazzeni ed un giardinetto rustico adiacenti alla casa paterna.
(Questa vasta casa era già stata proprietà di don Raimondo Adamo, suocero di don Luigi Gangitano).
Don Emanuele progettò di costruire la propria casa sull’area di questi corpi bassi, abbattendo tutto ed iniziandone la costruzione nel 1827.
Il posto, pianeggiante e centrale, si prestava benissimo. Ultimata, risultò una bella costruzione, degna veramente di un signore nato.
L’architettura, che è superiore alle concezioni di capimastri locali, è una felice e sobria fusione di elementi settecenteschi e neoclassici con prevalenza di questi ultimi.
Bello e proporzionato il cortile interno, bello — anche se non maestoso — lo scalone.
Per il lettore che non sapesse identificarlo dirò che si tratta del palazzo più conosciuto del paese dopo il Municipio: in esso ha sede la Caserma dei Carabinieri.
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LA CAPPELLA ALLE BOTTEGHELLE
I confratelli degli Agonizzanti, quelli che intervenivano nei funerali e nelle processioni con un camice ed un cappuccio di rozza tela di canapa, avevano deciso di erigere a loro spese una Cappella alla fine della strada delle Botteghelle, così chiamata perché vi erano un tempo le botteghe baronali. Oltre a tutto, questa Cappella avrebbe fatto da sfondo alla strada, venendo a corrispondere sul suo asse.
Ottenuto il permesso del padrone dello stabile al quale doveva essere addossata furono iniziali i lavori, e nel maggio del 1829 la nuova Cappella fu inaugurata.
In seguito, poco alla volta, le Confraternite si assottigliaro fino a sparire dalle pubbliche cerimonie e nelle processioni non si videro più né camici, né cappucci, né mezzette colorate. In compenso si fecero avanti, con i loro stendardi, le organizzazioni femminili.
Ma la Cappella con le sue colonne, il suo cancello di ferro e il suo rozzo architrave, assolve ancora oggi la sua doppia funzione, religiosa e scenografica.
Insieme ad una Chiesa, costituisce l’eredità di una Secolare associazione di devoti che intervenivano nei funerali e nelle processioni vestiti di rozza tela di canapa.
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LA PIOGGIA DI SABBIA
Quello che avvenne il 15 maggio del 1830 non aveva precedenti a memoria d’uomo. Infatti, quando mai si era visto piovere sabbia per un giorno intero? Non bastavano le malannate, le invasioni di cavallette, il terremoto? Quest’ultimo si era fatto sentire qualche anno prima, ma era stata una scossa educata, una visitina in punta di piedi. Ma questa strana pioggia, cosa poteva significare se non un avvertimento celeste?
E l’Arciprete dovette essere dello stesso parere poiché organizzò una grande processione di penitenza, ripetendo quando già era stato fatto l’anno del terremoto.
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I PRIMI FANALI
Dopo lunghe discussioni il Consiglio Comunale, sull’esempio di Caltanissetta, decise finalmente di provvedere alla pubblica illuminazione.
Era l’anno 1846. Prima d’allora chi usciva di sera senza lanterna correva il rischio di rompersi le gambe cascando in qualche buca traditrice oppure inciampando in qualche grosso sasso, perché le rare lampade che venivano accese dai devoti davanti ai tabernacoli (quando c’erano) non bastavano ad illuminare tutta la strada.
E l’illuminazione, data in appalto a Mastro Salvatore Lentini, cominciò a funzionare lo stesso anno.
Ma non era una gran cosa. In tutto furono impiantati 70 fanali ad olio, che per risparmio di combustibile dovevano restare spentì nelle sere di plenilunio.
Ad ogni modo, quando finalmente si videro i primi lampioni accesi, dovette essere per tutti una festa.
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IL CASTO GIUSEPPE
Verso la metà del secolo scorso, sull’imbrunire d’una sera primaverile, don Giuseppe S..., uomo attempato e probabilmente carico di preoccupazioni, traversava lentamente la strada principale dirigendosi verso lo stretto vicolo che fiancheggia la Chiesa di Santa Rosalia.
Proprio dinanzi la Chiesa era stata posta una di quelle veneri da strapazzo che per antica consuetudine infestavano il quartiere, in quell’epoca ancora poco abitato.
Il nostro don Giuseppe cortesemente rifiuta l’invito fin troppo palese di quella donna, ma questa non si smonta per cosi poco, anzi diventa più, aggressiva. Di fronte alle ripulse dell’uomo esce in ingiurie grossolane e la sua voce richiama altre quattro o cinque donnine della stessa risma, che si avvicinano con l’evidente intenzione di aiutare la compagna.
Il malcapitato cerca scampo fuggendo verso la Piazza. Sempre inseguito da quelle furie, svolta in fretta l’angolo del Purgatorio, sale di corsa il breve tratto che lo divide dalla Chiesa del Carmine e si attacca disperatamente al portone dell’attiguo Convento.
I Frati gli aprono subito, don Giuseppe è in salvo.
Ma l’è donne, raggiunto il portone ormai di nuovo sprangato, non disarmano. Anzi le loro invettive si fanno sempre più nutrite e pittoresche, mentre grossi sassi lanciati con forza contro il solido portone minacciano dì scheggiarlo.
Con un po’ di ritardo arriva la Ronda col Capitano di Notte in testa. Le donne sono presto ridotte all’impotenza ed arrestate.
Finalmente don Giuseppe può tornare a casa tranquillamente per raccontare la sua disavventura alla moglie che, supponiamo con molto fondamento, cominciava ad impensierirsi.
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LE MONACHE IN LITE COL COMUNE
Per un privilegio baronale che risaliva alla sua fondazione una presa, dalla sorgiva dì borgalino, portava l’acqua alla Badia, arrivandovi per dislivello naturale.
Senonchè, col passare degli anni, l’acqua cominciò a diminuire gradatameme fino a cessare del tutto.
Forse il tubo si era intasato per il deposito continuo di calcare oppure era stato ostruito da una frana. Comunque fosse, le monache si erano rassegnate.
Ma la rassegnazione finì quando fu eletta alla carica di Badessa una Gangitano. Questa, sulle tracce di vecchi ricordi, riuscì a trovare i titoli che le occorrevano, e fece domanda al Comune per riavere l’acqua.
Ma qui nessuno aveva mai sentito parlare di tale diritto; l’acqua di Borgalino era destinata esclusivamente ad uso pubblico.
E la Badessa, decisa, intentò causa al Comune.
Vennero fuori carte ingiallite dal tempo, fu ordinata una perizia e si scopersero i residui di un’antica tubazione di piombo che dalla sorgiva scendeva in direzione della Badia.
Ricorsi, controricorsi, appelli, e finalmente le monache ebbero ragione. L’acqua fu restituita al Monastero, che ritornò ad essere l’unico stabile cittadino provvisto di acqua corrente.
Ma le Monache non poterono godere a lungo questa comodità, perché la loro sorte era stata già decisa.
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L’INFERNO IN CHIESA
Circa un secolo fa, durante la Quaresima, nella Chiesa Madre si facevano le solite prediche giornaliere. Il predicatore attirava molta gente, e la Chiesa era sempre gremita.
Quel giorno doveva parlare sull’Inferno, compresa la viva descrizione di tutte le pene riservate ai dannati.
La voce profonda che scendeva dal pulpito faceva rabbrividire e tutti i presenti per suggestione, erano in quel momento tra vapori di zolfo, diavoli cornuti e rumore di catene.
E dalla suggestione si passò alla realtà. L’acre odore dello zolfo si sentiva davvero ed appestava la Chiesa, misto a fracasso di ferraglia.
Paura, strilli, svenimenti, poi tutti di corsa verso l’uscita piantando in asso predica e predicatore.
Che avveniva?
La risposta l’avrebbero potuta dare alcuni sacrestani nascosti dietro l’Altare Maggiore.
Ma questi, non avevano ragione di parlare.
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IL « MORTORIO »
Approssimandosi la Quaresima, si preparava il « Mortorio », cioè il dramma della Passione. La sua preparazione, data la lunghezza dello spettacolo ed il grande numero di attori e di comparse che vi prendevano parte, andava necessariamente per le lunghe.
Attori e comparse erano tutti dilettanti, e molti facevano per anni la stessa parte, raggiungendo così una certa bravura.
II testo seguito era quasi sempre quello tradizionale dell’Orioles, e le recite si davano in qualche grande magazzeno sgomberato per l’occasione. Ma non mancano i ricordi di rappresentazioni date all’aperto come nel 1726, quando ne fu eseguita una di fronte la Chiesa di S. Diego.
I costumi erano approssimativi. Spesso i soldati romani impugnavano armi settecentesche ed il Gran Sacerdote poteva indossare, senza rendersene conto, solenni paludamenti di evidente carattere cristiano. Per il resto, lunghe tuniche colorate davano agli spettatori la sensazione dei tempi apostolici.
Ma né questi anacronismi, né le frequenti papere degli attori che spesso domandavano al vino il coraggio di recitare disturbavano l’attenzione del pubblico, che seguiva commosso la trama del lavoro ed aspettava con ansia i momenti più sentiti.
Uno di questi era l’episodio della morte di Giuda che s’impicca ad un albero di fico, mentre un diavoletto rosso ne attende la morte per fare degna accoglienza alla sua anima.
Non era raro che a tale scena qualcuno si lasciasse sfuggire delle pittoresche invettive all’indirizzo del traditore, mentre le donnette si facevano devotamente il segno della Croce.
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GIOCHI AL CIRCOLO
Finalmente, il tanto atteso Natale era prossimo. Odore gradito di dolci appena sfornati, novene e giochi.
Le famiglie, una volta tanto, si concedevano questo diversivo. Giochi innocenti, si sa: la tombola, il sette e mezzo, la belladonna con le botte.
Senonchè, a molti frequentatori del Circolo, questi svaghi familiari non destavano eccessivi entusiasmi. Tanto, Natale viene una volta all’anno. E con Natale, viene una sola volta anche Capodanno e la festa dei Tre Re, cioè l’Epifania.
La bassetto, dava loro maggiori emozioni. Chi non era sedotto da questo gioco poteva scegliere l’asino o addirittura la popolare zecchinetta, che era in tal caso nobilitata dalla compostezza dei giuocatori. Oppure, sempre seducente, il nove, l’unico gioco dove il banchiere viene chiamato padre. Per semplice passatempo c’erano i tarocchi, lo scopone, la briscola, il mediatore e lo stopo.
Ma ecco, verso la fine del secolo scorso, farsi strada un giuoco nuovo che doveva detronizzare definitivamente la bassetta. Era il baccarat, che doveva restare il grande protagonista del periodo natalizio.
E le lunghe serate invernali passavano alla svelta tra gare di offerta per il banco e consumo di paste, cannoli e liquori.
I giuocatori, evidentemente, erano soddisfatti. Le loro mogli, forse un po’ di meno.
[27]
I «SALINARI»
Racalmuto, si sa. è una delle fonti del sale. Ed i salinari si spargevano nei paesi vicini per smerciarlo.
Lungo l’antica (trazzerà che portava a Racalmuto era un passaggio continuo di asinelli pazienti che portavano il prezioso carico, indispensabile per tanti usi. Sale macinato da vendere a quarti ed a mondelli, e sale in pietra da pestare nel mortaio, a basso prezzo e senza alcuna limitazione.
E l’antica mulattiera, oggi quasi deserta, viene chiamata ancora la « Trazzera dei salinari».
[28]
GLI ORDINI RELIGIOSI SOPPRESSI
La disciplina ecclesiastica contempla la soppressione di un qualsiasi Ordine Religioso quando questo viene meno allo scopo per cui fu fondato. Contrariamente a quanto si potrebbe credere, molti sono gli Ordini soppressi a tutt’oggi.
I Canonici Regolari di San Giorgio in Alga, fondati nel 1404, furono soppressi nel 1668; i Clareni sono scomparsi perché riuniti ai Francescani, i Gesuiti furono soppressi da Clemente IX nel 1668, gli Umiliati nel 1571, gli Antoniani nel 1778, i Gerolomini Eremitani Spagnoli nel 1853.
I Gesuiti furono soppressi il 1773 ed in seguito ristabiliti nel 1814, e la stessa sorte ebbero gli Scolopi.
A questi ordini si aggiungano quelli estinti naturalmente: i Vittorini, i Celestini, i Fratelli della Vita Comune.
Fra gli Ordini di fondazione antica che oggi sono quasi estinti sono da annoverare: i Certosini, le Canonichesse Regolari Lateranesi, le Teatine e le Camaldolesi.
[29]
E' POSSIBILE DATARE L’AZIONE SCENICA DE « LA FIGLIA DI IORIO »?
« La figlia di lorio » è Fra quei lavori teatrali in cui la vicenda si svolge in un tempo non determinato.
L’Autore stesso così si esprime: «Nella Terra di Abruzzo, or è molt’anni ». Vediamo se nonostante questo chiaro avvertimento iniziale riusciamo, analizzando l’opera stessa, e trovarvi qualche sicuro riferimento cronologico.
Lo studio dei costumi non ci può essere di nessuna utilità. Siamo in Abruzzo, dove i costumi descritti si sono conservati fino ai nostri tempi.
Anche il rapido accenno a Roma (« Alte mura ha le Città — E oran porte di ferro, e torno torno — Gran sepolture dove cresce l’erba ») non ci rivela molto, riportandoci ad una visione leggendaria e medioevale tramandata dai pellegrini che ne dovettero ricavare questa sommaria impressione, conservata a lungo dai pastori abruzzesi.
Aligi, il protagonista, ha desiderio di andare a Roma dal Papa, per tentare di sciogliere il suo matrimonio con Vienda di Giave. Dice che lo supplicherà « a nome di San Pietro Celestino — Che sul Marrone fece penitenza »,
Ecco finalmente un riferimento sicuro, almeno teoricamente. Pietro da Morrone morì alla fine del secolo XIII. L’azione quindi deve essere impostata dopo quella data, anzi molto tempo dopo, perché si intuisce che Aligi con quelle parole ricorda un fatto già lontano.
Ma non è assolutamente possibile dare un’epoca, sia pure approssimativa, all’azione scenica traendola da questi pochi elementi.
Lo stesso Autore ha fatto di tutto perché non si possa indovinare. Nonostante questo, bisogna riconoscere che questa lacuna nulla toglie alla bellezza dell’opera.
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I SOPRANOMI DEGLI ARTISTI
Uno dei particolari curiosi della Storia dell’Arte è costituito dell’abitudine tradizionale di chiamare alcuni artisti con sopranoini spesso bizzarri e curiosi, abitudine rarefatta sono nel secolo scorso. Non Facendo distinzione di importanza o di cronologia, ne citiamo alcuni alla rinfusa: il Talpino, il Bramantino, il Pinturicchio, il Tinto-rette, il Brusasorcì, il Bambaia, il Bronzino, il Mastelletta, il Ghirlandaio, il Sodoma, il Bergognone, il Caparra, il Guercino, il Monocolo, il Bachiacca, il Volpino, il Ba-roccio, il Morazzone, il Botticelli, il Franciabigio.
Un gruppo abbastanza numeroso di artisti ha preso il soprannome della patria d’origine. Fra questi il Veronese, Cesare da Sesto, il Caravaggio, Marco d’Oggiono, il Padovanino, il Moretto da Brescia, il Cavalier Calabrese, il Morto da Feltre, il Monrealese, Antonello da Messina, il Perugino, Leonardo da Vinci, Liberale da Verona, Me-lozzo da Forti, il Correggio, il Parmigianino, Giorgione da Castelfranco, Daniele da Volterra, Nicola da Guardiagrele, Cima da Conegliano, il Pesarese, il Cerano, Masolino da PanicaLe, Desiderio da Settignano, Pietro da Cortona.
Fra i sopranoini costituiti dal patronimico citiamo :
Raffaello Sanzio cioè Raffaello di Santi, Neroccio di Bartolomeo, Jacopo del Sellaio, Andrea del Sarto.
Uno dei gruppi minori è quello degli artisti stranieri italianizzati:
Gherardo delle Notti, lo Spagnoletto, il Giambologna, il Greco.
Alcuni artisti ebbero il sopranome originato dal loro nome o dal loro cognome, come il Domenichino (Domenico Zampieri), il Lissandrino (Alessandro Magnasco), il Canaletto (Antonio Canai), il Giambellino (Giovanni Bellini), il Giampietrino (Gianpietro Rizzi), Donatelle (Donato dei Bardi), Masaccio (Tommaso Guidi), il Crivellone (Angelo Crivelli).
Del gruppo dei religiosi fanno parte fra Galgario, il Beato Angelico, il Prete Genovese e Fra Bartolomeo.
Le donne, nella Storia dell’Arce, sono pochissime.
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LE ACCADEMIE LETTERARIE
Tra il Seicento ed il Settecento vi fu in tutta l’Italia una fioritura di Accademie Letterarie e Scientifiche, oggi quasi tutte estinte. Anche riferendosi soltanto a quelle letterarie, alcune delle quali ben note come quella dell’Arcadia e della Crusca, non è facile farne un censimento completo se si pensa che nella sola Venezia ne sorsero una cinquantina. Piuttosto rileviamo i curiosi nominativi di queste Accademie e, per derivazione, i nominativi dei loro soci.
A Milano fioriscono gli Arisofi, Ì Partenii, gli Incerti, i Nascosti, i Faticosi, gli Ermatenaici e gli Ardenti — a Torino i Fulminei e gli Incolti — a Casale g!i Illustrati — a Bologna i Gelati, gli Impazienti, gli Oziosi e gli Abbandonati — a Venezia gli Abbagliati, i Discordati e i Disingannati — a Genova i Galeoti — a Palermo gli Addolorati e gli Agghiacciati — a Messina gli Abbarbicati •— a Rimini gli Eutrapeli — a Gubbio gli Addormentati — a Spello i Balbuzienti — a Padova gli Affettuosi — a Siena gli Affilati — a Firenze gli Umili, i Rifritti ed i Le-sinanti — ad Ancona i Caliginosi — a Roma gli Arcadi, i Fantastici, gli Ombrosi, gli Indisposti e gli Alterati — a Napoli gli Affettati, gli Scatenati, Ì Lunatici e gli Intronati — a Bari gli Incogniti ed i Pigri — a Catania gli Elevati — a Brescia gli Erranti — a Cornacchie i Fluttuanti — ad Arazzo i Forzati — a Reggio i Furiosi — a Piacenza gli Ortolani1 e gli Spiritosi — a Perugia gli Insipidi — a Mantova gli Invaghiti — a Cesena gli Armonici — a Siena i Trapassati ed i Travagliati — a Modica gli Affumicati — ad Agrigento i Mutabili ed i Rischiarati — ad Aquila i Velati — a Rovigo i Concordi — ad Acireale gli Zelanti.
Anche gli Accademici avevano l’uso di scegliere per proprio conto un nome letterario. Eccone alcuni : Argeo Coraconafio, Verindo Tueboate, Terminto Ocironio, Tubalco Panichio, Erone Geonio, lafileo Nafilio, Amaranto Sciadilico. Eritisco Pileneio, lapeto Egiratico, Sminieo Georgico.
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UN FUNERALE PRINCIPESCO
Funerali di gran classe non sono stati eccezionali per Canicattì. ma si trattava quasi sempre di membri della famiglia Bonanno o comunque di personaggi locali bene in vista.
Ma. quando il 30 agosto del 1654 mori Don Giuseppe Di Giovanni, principe di Castronovo. che si trovava a villeggiare nella Torre di Graziano, la sua salma qui trasportata ebbe solenni esequie in Parrocchia, o meglio nella chiesa che allora funzionava da Parrocchia.
I funerali, fastosi come richiedeva il costume dell’epoca e il rango dell’estinto, furono officiati dall’arciprete don Marco Aurelio assistito dai Missionari e dalla rappresentanza del Clero regolare e secolare.
Ultimate le funzioni, la salma del principe fu trasportala in Palermo.
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UN FURTO SACRILEGO
Una domenica di luglio del 1690 si diffuse in un baleno una notizia che non aveva precedenti a memoria d’uomo, eppure vera. Nella chiesa di San Diego. dopo la Messa celebrata all’altare del Crocifisso, erano misteriosamente spariti un calice e una catena d”argento.
Mastro Francesco, il sacrestano, non ebbe più pace né sonno. Improvvisatosi poliziotto, dopo pochi giorni scoprì il ladro e potè recuperare la refurtiva.
Gli oggetti erano stati asportati da un cherichetto, uno di quei ragazzi che vestono alla maniera ecclesiastica o imparano ad essere di aiuto nelle funzioni.
I bravi cittadini tirarono un sospiro di sollievo. Non potevano certo sapere che oltre due secoli più tardi, il 13 aprile del 1823, un altro furto sacrilego ben più importante, per quanto subito scoperto, avrebbe commosso il popolo. Questa volta si trattava dello stellario d’argento che adornava la statua della Madonna Immacolata.
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UN SANTO CONTESO
Anticamente nella chiesa del Carnine c’era una statua di san Raimondo e la sua festa vi era celebrata con largo concorso di fedeli.
Cosi per circa un secolo. Senonché. nel 1696, un suo devoto espresse in punto di morte il desiderio che il santo fosse trasportato nella chiesa degli Agonizzanti dove, a parer suo, poteva essere onorato più degnamente.
Si formò subito una corrente favorevole al desiderio del morto e la cosa sarebbe riuscita se i Frati del Carnine avessero aderito anche loro.
Ma questi, giustamente, opposero al progetto la più tenace delle resistenze. Ricorsi, petizioni al vescovo, parole grosse fra gli esponenti dei due partiti (anche i Frati avevano i loro parmigiani) a nulla valsero.
Vinsero i Frati e san Raimondo rimase al Carnine. Ma con l’andare del tempo si perdettero le statue di questo santo, così come nessuno sa dire dove sia andata a finire quella di san Marco, che nel Seicento fu rimossa dallo Spirito Santo per essere custodita nella Chiesa Madre.
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UNA CATTURA MOVIMENTATA
Quella bella giornata primaverile (si era ai primi di maggio del 1703). invece di portare serenità e riposo al Capitano di Giustizia D. Pietro Sammarco. gli portò una notizia che lo mise in allarme. Mastro Giuseppe, un pericoloso latitante, aveva avuto l’ardire di rientrare nella casa patema approfittando dell’assenza dei suoi familiari, impegnati in lavori agricoli.
Il Capitano decise, come suo dovere, l’immediato intervento per l’alba, dopo avere fatto piantonare la casa. Accompagnato dal Giudice, dal Fiscale e dalla Ronda, batte alla porta del rifugio del bandito che s’affaccia ad una finestra e risponde con arroganza. Invitato ad arrendersi, disse che era pronto e che venissero a prenderlo, dopoché, senza preavviso, cominciò a sparare. Per fortuna tutti i colpi andarono a vuoto. Le autorità furono costrette a far suonare a stormo le campane della Torre dell’Orologio per chiedere aiuto ai cittadini. La porta venne forzata con un filo di ferro e furono fatti salire per primi alcuni parenti e amici del latitante perché lo persuadessero alla resa.
Finalmente Mastro Giuseppe, resosi conto che era inutile resistere ancora, decise di costituirsi al Capitano, consegnandogli l’arma ancora carica.
Fu condotto al carcere e, dato il suo temperamento piuttosto vulcanico, si pensò con molta prudenza di rinchiuderlo in una cella isolata.
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ATTENTATO AL CARCERIERE
Mastro Giovanni La Porta provò a sue spese cosa poteva significare essere carceriere per certe teste calde che giravano per il paese.
La sera dell’ultimo giorno di febbraio del 1704, Mastro Giovanni si trovava in Piazza e si disponeva ad aprire la porta del carcere dove aveva il dovere di passare la notte.
Nella sera invernale aveva notato delle ombre all’angolo della salita del Carnine, ma non ci fece caso. Senonché una persona si portò velocemente verso il centro della Piazza e gli sparò a bruciapelo due colpi di “carrobina”. Per una fortunata combinazione il carceriere restò illeso e i colpi si esaurirono nel robusto portone, producendovi due grossi buchi. Il mancato omicida raggiunse i compagni e di corsa sparirono tutti verso la Chiesa del Carnine, inseguiti invano dal carceriere.
A Mastro Giovanni non restò altra soddisfazione che far chiamare le guardie e mettersi a letto più morto che vivo. Era un uomo dabbene e, se aveva inimicizie, erano quelle derivanti dalla sua carica. Ma era inutile prendersela con lui: la sua mansione era quella di custodire la gente, non di arrestarla.
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TUTTO PER UN MAIALE
A quel poveraccio, riconosciuto ed inseguito dai Provvisionati (le guardie di quel tempo), non restò altra soluzione di entrare nella chiesa più vicina, che era quella degli Agonizzanti.
Aveva sulla coscienza il furto di un maiale. Ma là dentro, nell’anno di grazia 1705, nessuno poteva toccarlo. Poi, qualche santo l’avrebbe aiutato.
Ma. se i Prvvisionati non potevano arrestarlo per il noto diritto di asilo, nessuno poteva impedire che piantonassero l’uscita della chiesa.
Dopo qualche ora di attesa il rifugiato, spinto da un impellente bisogno che non era opportuno soddisfare né in chiesa né in sacrestia. fu costretto ad uscire, naturalmente con l’intenzione di rientrare al più presto.
Appena fuori, fu arrestato e condotto nelle pubbliche carceri. Ne segui una controversia con la Curia e il vescovo diede ordine che il carcerato fosse ricondotto nella chiesa da lui scelta per rifugio.
Ma per il ladruncolo di maiali il vantaggio fu solo apparente. La pena doveva scontarla Io stesso e poco gli poteva importare da chi fosse stata decisa.
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DIVIETO DI CACCIA
Dovettero avere un duro colpo i cacciatori dilettanti a sentire promulgare, nel settembre del 1734, il “Bando e comandamento” emesso dal Governatore rev. don Domenico Testasecca. Questo bando ingiungeva a tutti i cittadini di non sparare né di giorno né di notte per ragione di caccia non solo in tutto il territorio feudale, ma anche nelle seguenti contrade incluse nel Demanio di Naro: “fego (feudo) di Cazzola, territorio di Andoliìia. C’ugno di Cavallo. Camara, P’iumara delli Gulfi. Balata, loco nominalo di Pitrillo. Fiumara di don Ignazio Buscemi, Fiumara di Cornei e Gaetano”.
Questo divieto si estendeva anche per la pesca delle anguille anche nelle saie dei molini. Non c’era da scherzare. Per i contravventori, oltre alla confisca dell’arma. era contemplata una multa di onze quattro da devolvere a favore della nuova Chiesa Madre, che era in corso di costruzione.
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UNA QUISTIONE IGIENICO-LEGALE
Nell’agosto del 1747, la Magnifica Corte Gapitaniale dovette discutere una causa inconsueta. Mastro Giuseppe Lo Seggio Faceva istanza perché fosse annullato un contrailo di enfiteusi da lui stipulato anni prima con don Giuseppe Giuliana che gli aveva concesso due case a pianterreno in località ‘Fontanella”, malsana e paludosa a causa del torrente vicino.
Essendo una causa senza precedenti, furono chiesti i pareri d’alcuni medici.
Il dottor Giuseppe Martines riconosce che la località è malsana “per gli effluvi che comunica nell’aree.
Il dotto Gaspare Cascio esprime la stessa opinione, essendo delle case “in luogo di palude e d’acque morte”.
Il dottor Giuseppe Testasecca vi constata soltanto un’aria “alquanto grassa, ma non contagiosa né pericolosa”.
Il dotlor Antonino Gangitano riconosce che il luogo è malsano ma che non può far male a quelli che vi sono nati o assuefatti.
Alcuni testi, fra i quali d. Domenico Ancona e l’aromatario (farmaciata) D. Lodovico Costanza che abitano nelle vicinanze, dichiarano che tanto loro che i propri familiari sono sempre stati in buona salute.
La sentenza della Corte fu sfavorevole al richiedente.
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LE MALEFATTE DI UN ARMIERE
Che una persona possa essere tramandata ai posteri a causa di un grosso furto può anche avvenire, ma che passi alla storia (o piuttosto alla cronaca) per la sottrazione di 14 canne da fucile è un caso abbastanza raro. Eppure di questo reato si macchiò “Peppi lu luonguo”, un antico custode dell’Armeria del Castello.
In un’epoca imprecisata, fra tanti oggetti a portata di mano, si contentò di fare sparire soltanto quelle 14 canne che sicuramente saranno andate a finire presso qualche ricettatore. Il fatto, presto o tardi, fu scoperto.
Quello che restava dei fucili manomessi continuò ad essere custodito nell’Armeria, mentre questo furto antico ed il nome del suo autore continuarono ad essere ricordati negli inventari che si compilavano ogni volta che entrava in carica un nuovo custode.
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FINALMENTE PIOVE
Peccato che ci non sia possibile identificare tutti i Santi, ovvero tutti i simulacri dei Santi che nella primavera del 1753 furono radunati nella chiesa di San Francesco per ottenere la pioggia. Quell’anno la siccità era stata eccezionale, tanto che si arrivò alle pubbliche preghiere.
Fu, certo per intercessione di questi Santi, la pioggia ristoratrice scese copiosa nei primi giorni di maggio. Il raccolto, per quell’anno, era assicurato, la carestia scongiurata.
L’eccezionale riunione si sciolse e le statue ritornarono nelle proprie chiese, dopo una solenne cerimonia di ringraziamento.
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I MAZZIERI
Mastro Antonino Moscato e mastro Agatino Antinoro, i due Mazzieri dell’Archivio, avevano ragione di essere contenti.
Si approssimava la Pasqua dell’anno 1757 ed aspettavano il tradizionale agnello vivo che arrotondava il loro stipendio.
Non si pensi che se la scialassero, per quanto fossero delle persone in vista. La loro importanza proveniva dal fatto che erano in continuo contatto con tutte le personalità in parrucca e robone che frequentavano, per ragione di ufficio, il piccolo Archivio Giuratale, cioè l’antenato del Municipio: lo Spettabile Capitano, i Magnifici Giurati, il Fiscale, i Dottori in legge, i Maestri Notari,
La loro paga consisteva in quattro onze annuali, più quattro paia di calze, un paio di scarpe, un agnello per Pasqua e. naturalmente, i soliti imprevisti.
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NATALE SENZA GIUOCHI
Chissà che effetto dovette fare a molti, la mattina del 23 dicembre 1770, la conoscenza di un “Bando e comandamento” diramato dal Capitano di giustizia don Raimondo Adamo.
Questo bando, alla vigilia delle feste natalizie, proibiva a chiunque giuochi d’azzardo, sotto pena di onze 100 per i nobili e civili, di onze 25 per gli altri. Oltre a questo minacciava ai trasgressori le “pene solite”.
Non sappiamo precisamente quali fossero queste pene, ma è certo che prima ancora che si fondassero i “Circoli di conversazione”, qui si giocava clandestinamente ai dadi, in un giuoco chiamato “a sette ed otto”.
E siamo sicuri che. almeno per quell’anno, ben pochi dovettero essere i trasgressori. Dopo la regolare promulgazione del Bando sia per affissione sia a voce attraverso il banditore autorizzato, diventava difficile riunirsi e giocare tranquilli con quella maledetta ronda sempre in movimento. E la ronda, comandata dal Capitano, aveva il diritto di perquisire, al minimo sospetto, qualunque casa, nonché tutte le persone che vi si trovavano.
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MUORE PADRE ELIA
L’8 novembre del 1780, dopo brevissima malattia, mori don Elia Lauricella, un vecchio sacerdote di Racalmuto tenuto dal popolo in concetto di santità.
Venuto qui per predicare, era ospite della famiglia Gangitano.
Sebbene lo stesso avesse desideralo espressamente di essere sepolto in patria, il popolo, ripetendo un fatto di sapore medioevale, fu di parere contrario.
Padre Elia, in forma provvisoria, fu sepolto in san Domenico. Di seguito furono tali e tanti i pretesti addotti, che il provvedimento divenne definitivo. Molti anni dopo la salma fu trasferita nella chiesa degli Agonizzanti, dove molti conterranei venivano spesso per rendere omaggio alla sua memoria.
E ogni tanto, da Racalmuto, arrivava una richiesta destinata a non essere mai esaudita.
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SI RINNOVA UNA CHIESA
Chissà quando e da chi fondata, la chiesa della Madonna della Rocca se ne stava in disparte e quasi dimenticata per lungo abbandono, quando nel 1796 il Decurionato ne fece oggetto di discussione.
Fu stabilito, per salvarla da sicura rovina, di affidarla ad un sacerdote zelante.
Con l’adesione dell’Arciprete, questi fu trovato nella persona di don Giuseppe Merulla a, che a furia di sottoscrizioni popolari potè intraprendere e portare a termine dei restauri radicali.
La stessa chiesa, rinnovata e riaperta al culto, circa un secolo più tardi doveva essere affidata ai Cappuccini, che, pur avendo avuto a Canicattì un Ospizio, non vi avevano mai avuto un convento.
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ALLA BADIA SI PR0FESSA UNA MONACA
Nel mese di ottobre del 1797 la giovane Giovanna Lauricella, ultimato l’anno di noviziato, emise solennemente i voti alla Badia cambiando il suo nome di battesimo in quello di suor Crocifissa.
La cerimonia della vestizione, lunga e complicata, imponeva alla nuova monaca di stenderei al suolo coperta da un velo nero, mentre le campane della chiesa suonavano a mortorio.
Un documento proveniente dal soppresso Monastero e sfuggito alla distruzione ci fa sapere questa antica notizia di cronaca e per di più elenca i nominativi di tutte le altre monache presenti alla solenne Funzione che erano state convocate nel coro, secondo l’antica consuetudine, “ad sonum campanellae”: suor Teresa Portatone (Abbadessa). suor Eleonora Sammarco (Vicaria), suor Nicotina Notarstefano. suor Cannela Grillo, suor Emanuela Maitines, suor Antonia Notarstefano, suor Grazia Palumbo, suor Rosaria La Lomia, suor Costanza Sammarco, suor Orsola La Lomia, suor Caterina La Torre, suor Grazia Miccichè e suor Genoveffa Micciché.
Lo stesso documento ci da notizia dei sacerdoti officianti: il vicario don Carlo Adamo, don Francesco Sanchez, don Domenico Chiarenza e don Giorgio Safonte.
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TRUPPE DI PASSAGGIO
Passaggi di truppe, con permanenza più o meno lunga e più o meno gradita, se ne contano parecchi; ma quello avvenuto il 6 settembre 1798 fu certamente uno dei più brevi. Si trattava di un piccolo distaccamento composto di 30 soldati, provvisti di 32 cavalli. Provenienti da Caltanissetta e comandati dal capitano don Alessandro Cedronio, erano stati destinati al presidio della Torre di Gaffe, nella costa di Licata. Si fermarono soltanto una notte e. secondo le precedenti disposizioni, ebbero vitto ed alloggio nei magazzeni del Castello.
Il giorno seguente ripartirono alla volta di Licata, lasciando delusi i proprietari delle regie taverne che certo avrebbero desiderato, nel proprio interesse, una permanenza più lunga.
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UN SECOLO SI CHIUDE CON UNA CONDANNA A MORTE
II Settecento, secolo dei minuetti e delle dame incipriate, fini da noi col triste spettacolo di un’esecuzione capitale. Il reo, nativo di Riesi e qui abitante, fu condannato a morte con sentenza della Regia Gran Corte criminale, certamente per un grave delitto commesso fuori sede.
L’esecuzione venne fissata per il pomeriggio del 14 novembre e, come per antica consuetudine, il condannato fu condotto tre giorni prima in Castello per provvedere alla preparazione religiosa.
In Castello andarono a visitarlo il Superiore della Confraternita degli Agonizzanti, accompagnalo dai suoi assistenti e dal cappellano don Giovanni Petralito. Per lutti i tre giorni, mentre in chiesa si svolgevano ininterrotte funzioni, veniva esposto sulla pubblica piazza lo stendardo della Madonna degli Agonizzanti e “li Fratelli colli coppi andavano questuando per tutta la terra” (cosi si esprime un contemporaneo), allo scopo di far celebrare delle messe per l’anima del condannato. Insomma. non potendo salvargli la vita, i buoni confratelli cercavano di salvargli almeno l’anima.
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UNA “SCINNENZA” FUORI DEL COMUNE
Era l’armo 1814 e certo qualcosa ci doveva essere di nuovo nella funzione del Calvario, se la gente vi accorreva più numerosa del solito. Erano state installate, proprio quell’anno, le croci laterali per i due ladroni.
Ma non era questa la sola novità che faceva accorrere tanta gente. I sacerdoti che dovevano eseguire la funzione apparvero di nuovo, dopo tanti anni, “vestiti alla giudea”, con tanto di turbante in testa e tunica svolazzante.
Chissà che effetto suggestivo quando, cosi conciati, salivano sulle scale della Croce facendo cadere dall’alto i tradizionali versi che, di generazione in generazione, sono arrivati fino a noi:
Gerusalemme crudele. È già finita l’orribile scena di sangue. Il sole eclissato, il ciel, la luna. La terra, il mare atteggiati a dolor. Esprimono essere morto il Redentore.
E la funzione, a parte la metrica strapazzata, si svolgeva nella forma tradizionale, fino al coro “crudelissimo ferro”.
Subito dopo era la volta degli improvvisatori. dei penitenti coronati di spine e dei cori dei “lamentatori”.
Da quell’anno cominciò l’avversione per il cattivo ladrone che non si volle conveitire e la sua statua di cartapesta conobbe le sassate della ragazzaglia.
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SI ATTENDE IL RE
Una lettera, o meglio una circolare indirizzata a tutti i componenti il Comitato per i festeggiamenti a S. M., diramata in data 6 giugno 1834 dal sindaco don Placido Sammarco (oggetto; Real servizio), disponeva che una speciale Deputazione si recasse a Caltanissctta per invitare il Sovrano a venire qui. Erano stati designati, oltre a un rappresentante del Municipio, don Nicolo Lombardo, don Leonardo Lombardo e don Emanuele Gangitano.
Questi preparativi erano stati organizzati in previsione di una prossima venuta si S.M. Ferdinando II di Borbone. Nella stessa lettera sono segnali in calce quelli che facevano parte del Comitato organizzativo che tutto aveva pensato a preparare, dagli alloggi alle scuderie.
Diamo qui. per brevità, solo i nominativi dei Deputati per il ricevimento d’onore: il barone Agostino La Lomia, don Giuseppe Lombardo, don Luigi Bordonaro, don Nicolo Lombardo. Don Filippo Caramazza. don Vincenzo Gangitano Grillo, don Salvatore Bordonaro e don Raimondo Gangitano.
Senonché tutti i preparativi dovevano risultare inutili. Il re Ferdinando. arrivato a Palermo il 20 giugno, ripartì dopo avere assistito ai festeggiamenti in onore di santa Rosalia, e quella volta non ebbe alcuna voglia di spostarsi dalla Capitale.
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ACCOGLIENZA AL SOVRANO
Le autorità furono avvisate che il re Ferdinando II di Borbone, venuto in Sicilia per visitare i suoi stati, dopo la visita a Girgenti doveva proseguire per Caltanissetta, transitando per Canicattì.
Era il Giugno del 1847 ed il sindaco, in collaborazione con l’arciprete Martines, fecero il possibile per preparare una degna accoglienza al Sovrano, che giungeva in un momento critico perché si sentiva già aria di rivoluzione.
Oltre la solita musica e la solita luminaria, si pensò di aggiustare la strada dell’acquanuova sino a S. Andrea, l’attuale ponte di ferro. In Piazza fu eretto un padiglione di legno, in chiesa si preparò una solenne funzione.
Le spese sostenute dal Comune superarono le onze 100, ma i saggi Amministratori riuscirono a recuperare una piccola parte della somma rivendendo il materiale usato.
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DUE POESIE IN ONORE DI ERANCESCO II
Fra le sorprese che possono venir fuori studiando gli antichi volumi del!”Archivio Comunale una delle più inconsuete è costituita da un rinvenimento di componimenti poetici fin qui inediti.
Trattasi di un’Ode e di un Sonetto che l’Autore stesso, il concittadino Luigi Morello, declamò (o, meglio, ebbe il coraggio di declamare) il 4 ottobre 1859 (?) nella sala comunale in presenza del Decurionato e di tutte le altre autorità cittadine.
Lo strano è che questa fatica gli fruttò non solo gli applausi di lutti i presenti, ma anche una gratifica straordinaria di onze 6.
Diamo il principio dell’ «Ode per il giorno onomastico di S. M. Francesco II»:
Errar l’aure degli inimici sento intomo.
E che farai, cor mio?
Un inno sciolgo anch’io
Eccolo splendente al par del giorno
Scender da lucid’etra
Cinto di bende d’or. Re della cetra.
L’Autore continua su questo tono per una ventina di strofe e dopo avere avvertito che “Dolce è il miele de’ carmi, e al cor da pace” ed avere ricordato “il valor prisco de” Normanni Eroi”, cosi conclude:
Inno ti affretta, e ai Re che in mano tiene
La rugiada e gli strali.
Or de’ carmi augurali
Offri il tributo, o Genilor Sovrano:
Nei dì di Giove all’are
Anche l’erbette del pastor son care.
Più coerente e composto, per quanto cortigianesco, e il Sonetto “Per le nozze della M. S. con Donna Maria Sofia di Baviera”:
Speme ed Amor della Sicilia, figlio
della più Santa e Gloriosa Madre.
E del più forte ed invincibil Padre,
Alto decoro del Borbonio Giglio.
Poiché al Bavaro Trono or volse il ciglio.
Donde una Dea di forme alme e leggiadre.
Figlia d’Imperator di mille squadre,
A Te si univa per di vili consiglio.
Esultò l’Ara, e il Trono, e il Tempio, e il Regno.
E l’amore de’ popoli vi sia
D’aurea felicità splendente pegno.
Partenope e Trinacria in armonia
facciati plauso e lietissimo convegno
A nome di Francesco e di Sofia.
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INFURIA IL COLERA
Anno terribile il 1867, quando il misterioso colera fece la sua ricomparsa e rinnovò l’angoscia delle antiche pestilenze.
Poco o niente potevano i medici contro il terribile morbo asiatico quando c’era chi per malvagità, con unguenti e confetti avvelenati, voleva decimare la povera gente.
Sicuro, l’epidemia era voluta, e non potevano nulla contro di essa neanche le donnette che sapevano le virtù di tutte le erbe e curavano l’itterizia appendendo al petto del paziente un guscio di noce con dentro un ragno.
E l’epidemia, favorita dal caldo e dalla mancanza d’igiene, mieteva vittime a non finire, tanto che nelle chiese non v’era più spazio sufficiente per seppellire i morti.
Si dovette chiedere ospitalità ai Frati Minori che misero a disposizione il loro vasto giardino, dove ancora oggi, a chi zappa fra gli ulivi, può capitare di profanare involontariamente qualche tomba di quell‘epoca.
[54]
LA FINE DEL CARNEVALE
La sera dell’ultimo giorno quelli che erano decisi a divertirsi ad ogni costo (e ve n’erano sempre) si riunivano per celebrare i funerali umoristici del Carnevale, rappresentato da un fantoccio fatto alla meglio con tela di sacco ripieno di paglia.
Deposto sopra una scala a pioli, lungo disteso come un ammalato, era portalo lentamente verso la Piazza seguito da un codazzo di persone che piangevano comicamente e si strappavano i capelli, consolandosi con grandi bevute nelle osterie che si trovavano al passaggio del corteo.
In Piazza, fra lo schiamazzo generale, vi era sempre qualcuno che improvvisava uno strampalato saluto al fantoccio che doveva di lì a poco essere dato alle fiamme.
E quando finivano gli ultimi schiamazzi e si spegnevano le ultime scintille, la campana grande della Chiesa Madre annunziava ai fedeli l’inizio della Quaresima.
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UNA RECITA UNICA
Dovrebbe essere ricordata da una lapide quell’unica recita che la Compagnia Pirandelliana eseguì una sera d’aprile del 1927 nel nostro moderno e disadorno Teatro comunale.
Veniva Pirandello in persona, veniva la famosa Marta Abba. La scelta dei “Sei personaggi in cerca d’autore”’ era stata dettata forse perché non aveva bisogno di molti scenari.
Nei giorni precedenti la recita l’attesa fu decisamente febbrile e la caccia a quei pochi fortunati che avevano ascoltalo altrove il lavoro oppure ne possedevano una copia stampata divenne accanita. Nonostante i prezzi inconsueti, il Teatro era gremito in tutti gli ordini di posti.
E quando il sipario si alzò e cominciarono le prime battute, queste determinarono nella maggior parte degli spettatori una certa perplessità. Che significato avevano quei ragionamenti sottili fatti da personaggi che sembravano usciti da un manicomio? E quella Madama Saffo che spuntava solo a pronunziar il nome?
Alla fine la recita, coronata da fitti e prolungati applausi, lasciò il pubblico disorientato.
I commenti e le discussioni continuarono fuori. Tra i gruppi che sostarono a lungo in piazza.
Ma chi comprese meglio di tutti il recondito significato del lavoro pirandelliano fu un ferroviere. Lo comprese così bene da ricavarne quattro numeri che, giocati al lotto, gli fecero guadagnare un mucchio di quattrini.