LA CONCESSIONE DELL'ACQUA NELLA ROMA IMPERIALE
Di Giuseppe Iannicelli
INTRODUZIONE
Tranne alcune nobili eccezioni di studiosi presi forse più dalla bellezza poetica di una “Idea” creatrice del Diritto che non dalla crudezza dei fatti storici, i Romanisti concordano sulla tesi che l’Ordinamento giuridico romano ha avuto carattere “fattuale”: sono stati cioè i “fatti” e le azioni dei gruppi sociali a creare “Diritto”.
Ciò è certamente avvenuto all’origine e sarà solo “dopo” che le regole create determineranno i comportamenti dei gruppi sociali.
Questo è stato il percorso dell’esperienza giuridica romana e può essere verificato anche nella materia della regolamentazione dell’uso delle acque.
Ai tempi dì Frontino, siamo sul finire del 1° secolo d.C., erano passati oltre 420 anni dalla costruzione de! primo grande acquedotto romano, quello dell’Acqua Appia: era trascorso un tempo abbastanza lungo nel corso del quale sì erano succeduti atti d’imperio di varie magistrature (edili, censori, questori, pretori), leggi comiziali, senatoconsulti, e nel periodo imperiale ancora senatoconsulti, mandata prìncipum, epistulae, prescrizioni tecniche dei curatori delle acque e sopratutto atti o editti dei Principi.
Queste disposizioni spesso si contraddicevano fra loro, ma nella loro applicazione si teneva conto pacificamente dell’antico principio che si dice espresso nelle XII tavole, ut quodcumque posiremum populus iussisset id ius ratumque esset, con l’ovvia sostituzione nel principato del populus, privo ormai di ogni potere decisionale, con l’autorità che aveva emesso il provvedimento.
Sul finire del 1° secolo d.C., dopo il principato dei Giulio-Claudi e dei Flavi e con l’avvento di Nerva, la produzione dispositiva si era quasi stabilizzata pervenendo alla sistemazione rappresentata nel De Aquaeductu.
Questa sistemazione non può essere considerala una regolamentazione nel senso moderno del termine, ma ha il pregio di indicare per varie ipotesi, che si potevano presentare o si erano presentate nella gestione, regole e penalità. Per questo motivo essa esprime già una tappa importante di un processo durato oltre quattro secoli verso un complesso di regole certe, stabili e di osservanza generale.
PREMESSA
La regolamentazione della costruzione, manutenzione e tutela del sistema acquedottistico romano nel 1° secolo d.C. occupa una parte cospicua del secondo libro dei De Aquaeductu Urbis Romae di Frontino e precisamente quella che va dal cap. 94 al cap. 130.
Troviamo senatoconsulti, leggi, mandata, epistulae, citazioni di antiche disposizioni, che regolavano la materia in ogni sua parte compresa anche quella volta a contrastare e reprimere il fenomeno degli appresamenti abusivi: autentica piaga questo fenomeno a giudicare da pene severe che arrivavano addirittura alla confisca dei fondi irrigati con acqua derivata senza concessione.
LA CONCESSIONE
La distribuzione idrica in città avveniva in prevalenza a mezzo delle fontane e vasche pubbliche: Frontino parla di 59 fontane e 591 vasche; esistevano pure derivazioni singole o domestiche per usare un termine oggi adottato per una presa d’acqua ad esclusivo uso di una qualsiasi abitazione.
Queste derivazioni singole riguardavano i palazzi o ville imperiali, le residenze appartenenti a personalità di rilievo, caserme, edifici pubblici, fontane ornamentali, bagni pubblici.
La distribuzione fuori dalla città invece, a parte gli edifici dell’Imperatore e ville di notabili, aveva scopi essenzialmente irrigui.
Il principio generale posto a base del sistema concessorio è che nessuno può prelevare acque pubbliche, cioè acque dei canali o condotti pubblici, senza l’autorizzazione dell’Imperatore.
Per ottenere la concessione occorreva fare istanza a Cesare, indicando anche, nel caso di concessioni fuori città, l’indicazione del fondo beneficiario dell’acqua richiesta. Cesare, consultati gli appositi registri ove erano sistematicamente indicate le disponibilità idriche le concessioni rilasciate per i singoli acquedotti, concedeva l’autorizzazione.
La concessione era un vero e proprio atto di vendita d’acqua corredato da alcune prescrizioni tecniche esecutive.
L’atto di concessione era contenuto nell’epistula imperiale redatta dall’apposita cancelleria ab epistulis.
Il richiedente la concessione, secondo il disposto di apposito senatoconsulto (cap. 105), doveva portare l’epistula al curatore affinchè questi potesse dare attuazione alla concessione autorizzata: il curatore doveva vigilare perchè la derivazione fosse realizzata secondo le direttive e le prescrizioni contenute nell’epistula ed in particolare affinchè l’acqua derivata fosse effettivamente “né più né meno” di quella concessa.
La figura e le mansioni del curatore, stabilite per la prima volta da Augusto, subirono una modifica al tempo di Tiberio: venne istituita infatti la figura del procuratore che si affianca al curatore, anche se in posizione formalmente subordinata. Stabilisce il già citato senatoconsulto (cap.105) che il curatore, ricevuta l’epistula, nomina subito il procuratore cui affida l’esecuzione dell’autorizzazione.
Il procuratore, in base alla quantità d’acqua concessa ed avvalendosi degli addetti al suo ufficio, cura le seguenti prescrizioni:
a) stabilisce il castello pubblico da cui fare la derivazione ed indica al concessionario il luogo ove questi dovrà realizzare il proprio castello in cui riceverà l’acqua concessa (cap. 106);
b) stabilisce il calice d’imbocco a mezzo del quale si deve fare la derivazione e controlla che la sua lunghezza non sia inferiore a 12 dita (circa 22 cm. Vedi cap. 36);
c) verifica la misura della sua sezione che deve essere rapportata alla quantità d’acqua concessa (cap. 105);
d) controlla il posizionamento del calice nel castello di derivazione accertando che questo sia collocato ad libram cioè con il suo bordo superiore allo stesso livello di quello dell’acqua nel castello;
e) cura che immediatamente dopo il calice d’imbocco venga collocato un tronco di tubo della lunghezza non inferiore a 50 piedi (15 metri) avente la sezione trasversale uguale a quella del calice; questo tratto di tubo è il cosiddetto tubo legale (spatium legitimum dei cap. 106 e 112);
f) sia il calice che il tubo legale debbono essere allibrati (cap. 105- 112).
Tutte queste prescrizioni seguono quella a carattere generale secondo la quale ogni derivazione poteva essere fatta solo dal castello e non direttamente dal canale e ciò per evitare che un numero ripetuto di forature nelle pareti del canale per far luogo agli imbocchi potesse danneggiare la struttura. Discende da questa disposizione il divieto tassativo della pratica dei cosiddetti tubi sciolti, cioè dei tubi derivati direttamente senza l’interposizione del richiesto calice di derivazione (cap. 106 - 113).
La scelta del calice d’imbocco e conseguentemente della sezione del tubo legale, che come prima detto dovevano essere appositamente segnati o punzonati (cap. 112), era agevole. “L’epistula indicava il quantitativo d’acqua concesso espresso in quinarie o multiple di esse: il procuratore consultando le apposite tabelle approvate dai Principi (capitoli da 39 a 63) stabiliva il modulo di derivazione da adottarsi e conseguentemente il tipo di calice e di tubo legale da impiegare.
Il diritto alla concessione era personale e non si trasferìva all’erede, all’acquirente o nuovo possessore del fondo a beneficio del quale era stata richiesta ed ottenuta la concessione (cap. 107). Questa norma però non si applicava per i bagni pubblici ed ovviamente per le concessioni “a nome di Cesare” (cap. 107- 108).
Quando si verificava la condizione del venir meno di una concessione, o per morte del concessionario o per trasferimento dei diritti di proprietà o di possesso del fondo beneficiario, questo fatto doveva essere reso noto ed annotato nei registri imperiali; in tal modo eventuali nuovi interessati avrebbero potuto avanzare richiesta dell’acqua e la loro istanza poteva essere accolta.
Esisteva una disposizione speciale per le concessioni a favore dei fondi irrigui: in questo caso vigeva una norma transitoria che consentiva, in caso di decadenza della concessione, di non interrompere l’erogazione a favore del fondo per un periodo massimo di 30 giorni nelle more che si perfezionasse una nuova concessione. Si trattava chiaramente di una disposizione per evitare danni all’economia agraria del territorio (cap. 109).
Il diritto alla concessione, oltre che personale, era legato al fondo destinatario dell’acqua richiesta (cap.109): era fatto divieto infatti di portare l’acqua in fondo diverso da quello per il quale era stata ottenuta ed era pure vietato di derivare l’acqua concessa da un castello diverso da quello indicato nella epistula.
La concessione era prevista anche per le società di persone; essa conservava la sua totale validità fino a quando rimane in vita anche uno solo dei membri della Società.
Questa regola, però, come fa notare Frontino, non discendeva da legge ma da antica consuetudine (cap. 109).
Venne soggetta a concessione l’utilizzazione delle acque chiamate caduche (cap. 94-110-111); con questo termine si intendevano le acque derivanti da perdite nei condotti o quelle che fuoriuscivano per tracimazione nei castelli.
Queste acque erano diventate occasioni di commercio illecito per gli acquari che l’Imperatore decise di stroncare assoggettando con apposito mandato (cap. 111) anche queste acque a regime concessorio.
Per quanto riguarda le acque caduche dei castelli, il fenomeno doveva avere una certa consistenza ed a beneficiarne erano sopratutto bagni e lavanderie. Queste acque erano quelle che fuoriuscivano dagli sfioratori di troppopieno collocati nei castelli per mantenere costante il carico dell’acqua del castello sui calici di derivazione.
Quella rappresentata da Frontino nel De Aquaeductu era l’organizzazione, ai tempi di Nerva (96 - 98 d.C.), delle prerogative e competenze in materia di concessione delle acque: esse fanno riferimento alle figure istituzionali di Cesare, supremo detentore del potere concessorio. del curator aquarum e del procuratore.
In precedenza il sistema era differente. Ai tempi della repubblica la competenza a concedere l’acqua apparteneva agli edili, poi ai censori e, nel caso di vacanza dei censori, di nuovo agli edili.
Una svolta radicale nel sistema si ebbe nel quadro della grande riforma amministrativa dello Stato voluta da Augusto.
Questi toglie ogni competenza in materia agli edili e censori e fa rientrare la concessione o vendita dell’acqua nella categoria delle concessioni imperiali. Augusto istituisce la figura del curatore delle acque, che vuole equiparata quasi a quella degli altri magistrati e stabilisce anche la composizione dell’apparato dell’ufficio con relativi stipendi e cibarie (cap.100). Augusto, inoltre, fissa per Legge i moduli ufficiali di erogazione delle acque con le relative caratteristiche tecniche (cap.99).
Con Tiberio, infine, si perverrà alla istituzione della figura del Procuratore di cui si è detto in precedenza.
L’istituzione della figura del Procuratore che assomiglia un pò a quella odierna del “responsabile del procedimento” è stata oggetto di riflessione storica e politica. Il Procuratore, per Legge, (cap.105), doveva essere un liberto di Cesare: l’istituzione di tale figura e la sua individuazione proprio in un appartenente all’entourage imperiale, pur nel rispetto di una sua subordinazione formale al curatore, è stata considerata come un episodio del contrastato rapporto dialettico fra l’aristocrazia senatoria, di cui il curatore era stato sempre una espressione (vedasi elenco del cap.102), e l’emergente burocrazia imperiale in cui tanta parte cominciavano ad avere i liberti di Cesare.
In effetti l’istituzione della figura del procuratore liberto riduce di fatto le competenze del curatore ottimate proprio in una materia rilevante sotto il profilo politico-economico.
L’affermazione ricorrente nel De Aquaeductu della necessità della competenza “diretta” e senso civico degli uomini preposti al governo della città lascia trasparire la preoccupazione dell’aristocratico Frontino che all’epoca degli ottimati come Agrippa, Messalla Corvino, Ateio Capitone potesse subentrare quella di uomini nuovi privi di quell’amor di patria e competenza che solo gli ottimati erano, secondo lui, in condizioni di offrire.
Per quanto riguarda la realizzazione del tratto di presa fa il castello pubblico e quello privato, erano a carico del privato (cap.106) la fornitura e la collocazione in opera delle fistule occorrenti, mentre spettava al procuratore il controllo delle caratteristiche tecniche prescritte per le prese.
E’ probabile che i privati ricorressero per tali lavori a loro carico ad operai delle famiglie; quando Frontino nel cap.117 dice di avere trovato che gli operai delle famiglie erano soliti eseguire lavori dei privati e di averli richiamati ai loro doveri e mansioni, è probabile che si riferisse anche a questa pratica del doppio lavoro ancora ricorrente ai nostri giorni.
LA MANUTENZIONE DEGLI ACQUEDOTTI
I lavori di manutenzione degli acquedotti potevano essere eseguiti o a mezzo di appaltatori o a mezzo delle cosiddette famiglie, quella pubblica e quella di Cesare. La scelto se procedere, in caso di intervento di manutenzione, a mezzo di appaltatori o impiegando gli operai delle famiglie spettava al curatore (cap. 119).
Anche allora, quindi, c’era la distinzione che si fa oggi fra lavori in appalto e lavori in amministrazione diretta. Ai tempi della repubblica non c’erano ancora le famiglie addette alla manutenzione che sarebbero venute dopo con Angusto. I lavori venivano eseguiti di solito tramite appaltatori che fornivano le squadre degli operai da impiegare per gli interventi negli acquedotti esterni e quelle destinate per lavori dentro la città; era fatto carico agli appaltatori per i lavori in città di rendere pubblico l’elenco nominativo degli operai addetti per ognuna delle regioni in cui era suddivisa la città (cap. 96). Il compito del controllo dei lavori spettava ai censori e talvolta agli edili ed ai questori.
Con l’avvento dell’Impero, come si è detto, per le manutenzioni si impiegheranno anche le famiglie di addetti e precisamente una famiglia pubblica formata da 240 uomini ed una famiglia personale di Cesare formata da 460 uomini (cap. 116).
Le due famiglie avevano in pratica le stesse funzioni e lo stesso impiego. Le differenze erano che i salari della famiglia pubblica erano pagati dall’Erario con i proventi della riscossione delle imposte relative ai diritti sulle acque, mentre i salari della famiglia di Cesare erano pagati dalla cassa personale dell’Imperatore, cioè dal Fisco (cap.l 18).
C’era anche un’altra differenza: la famiglia pubblica è alle dipendenze de! curatore delle acque, mentre la famiglia di Cesare dipende direttamente dall’Imperatore e per esso, in genere da un liberto di Cesare.
Tutte e due le famiglie erano composte da operai con diverse mansioni e qualifiche: c’erano villici (cioè manovali zappatori), addetti ai castelli, sorveglianti, selciatori, intonacatori, etc. C’erano squadre che dovevano risiedere fuori città per la manutenzione dei condotti esterni e squadre destinate alla manutenzione della rete dentro la città.
Il curatore giornalmente stabiliva, quasi come con un ordine di servizio, il lavoro che ogni squadra avrebbe dovuto svolgere il giorno seguente; a sua volta i responsabili delle varie squadre erano tenuti a riportare in apposito diario il lavoro svolto ogni giorno (cap.l 17).
DISPOSIZIONI PER LA TUTELA E MANUTENZIONE DEGLI ACQUEDOTTI
Erano preposti, quindi, alla tutela e manutenzione degli impianti 700 operai delle due famiglie oltre agli operai forniti dagli appaltatori.
Si trattava di una forza lavoro consistente che, però, doveva curare una rete di acquedotti esterni (erano nove al tempo di Nerva) che sviluppavano complessivamente più di 400 chilometri oltre alla rete interna alla città che comprendeva i relativi condotti, 39 fontane, 591 vasche e 247 castelli partitori di derivazione. Era un sistema acquedottistico imponente che richiedeva continui interventi di ordinaria e straordinaria manutenzione; un sistema esposto anche ad aggressioni, danneggiamenti di varia causa, prese abusive con ripetute forature nelle pareti dei canali, inquinamenti anche dolosi.
Il contrasto e la prevenzione non potevano attuarsi con la semplice vigilanza specie negli acquedotti esterni per le difficoltà di accesso ai tracciati sviluppantisi spesso in zone distanti dalle esistenti vie di comunicazione. Occorreva agire sul fronte della legge creando disposizioni che stabilissero pene severe ed anche coercitive per alcune ricorrenti azioni delittuose: si pervenne così, nel caso di derivazioni d’acqua abusive per l’irrigazione dei terreni, anche alla confisca del fondo beneficiato illecitamente dalla presa e ad una multa all’appaltatore che aveva avuto una qualche parte nell’operazione fraudolenta (cap. 97).
Parimenti venne decisa una multa dì 10.000 sesterzi anche per i responsabili di inquinamenti dolosi (cap.97). Per il caso frequente di danneggiamento doloso delle strutture dei canali (caso delle prese abusive), castelli partitori di derivazione, arcate di sostegni dei condotti, con apposita legge popolare venne decisa l’applicazione di una multa di 100.000 sesterzi oltre alla condanna a risarcire ogni danno e ricostruire o riparare le strutture danneggiate (cap. 129).
Venne prevista nella stessa legge l’eventuale applicazione di misure coercitive e che nel caso in cui fosse stato lo schiavo a commettere l’infrazione la multa di 100.000 sesterzi avrebbe dovuto essere pagata dal padrone dello schiavo.
La competenza per l’applicazione di questa importante disposizione legislativa era del curatore ed, in caso di vacanza della carica, la competenza passava al pretore che amministrava la giustizia.
Altra disposizione notevole tu quella inserita nel senatoconsulto con cui vennero stabilite le zone di rispetto delle arcate e dei canali sottoterra; per l’oggettiva difficoltà di tenere sotto controllo costante un complesso di 400 chilometri di acquedotti esterni, era da aspettarsi che in quelle zone di rispetto si facessero coltivazioni o si realizzassero costruzioni. Venne decisa pertanto l’applicazione per ogni infrazione di una multa di 10.000 sesterzi di cui la metà sarebbe andata in premio a colui che aveva fatto la segnalazione dell’illecito (cap. 127).
Altra disposizione di legge venne decisa per facilitare l’esecuzione dei lavori di manutenzione che trovavano ostacoli per le difficoltà dell’accesso ai luoghi e per il reperimento a distanza ragionevole dei materiali necessari.
Con apposito senatoconsulto, che potrebbe essere considerato quasi come una sorta di legge per l’esecuzione dì lavori urgenti per pubblica utilità, venne decretata la possibilità di occupare terreni dei privati per l’accesso ai luoghi e per l’esecuzione dei lavori manutentori (cap. 125).
Venne anche decisa la possibilità di procurarsi nei terreni dei privati quanto disponibile potesse risultare utile per i lavori da eseguire nelle vicinanze.
Il giudizio sull’effettiva utilità per i lavori delle cose o del materiale da portar via spettava al curatore salvo la generica clausola che non si dovesse arrecare danno al privato.
Altra disposizione legislativa è quella contenuta nel senatoconsulto che stabiliva le servitù legali dì acquedotto.
Si fa una distinzione fra condotte sopra muri o arcate e canali sottoterra.
Per quanto riguarda i muri e le strutture arcate viene stabilita una zona di rispetto, per ambo i lati di 15 piedi, cioè di 4,50 metri.
Uguale zona dì rispetto è prescritta per le sorgenti.
Per quanto riguarda invece i canali interrati, la zona di rispetto è di 5 piedi per ambo i lati cioè m. 1,50.
In queste zone di rispetto era fatto divieto di ogni coltivazione di alberi o di costruzioni (cap. 127).
Se in tali zone vi erano alberi o costruzioni si doveva provvedere alla loro estirpazione o demolizione.
Non essendosi nella legge previsto alcunché per i pascoli, taglio delle erbe e del fieno e la raccolta delle prugne, si deduce che queste operazioni erano considerate ammissibili (cap. 129).
La violazione di queste norme comportava, come detto, l’applicazione di una multa di 10.000 sesterzi.
LA PORTATA IN QUINARIE
Potrebbe sorprendere che una portata, che è un “volune” sia determinata in quinarie o multipli di esse che sono invece moduli di misurazione di superfici.
Il fatto si spiega con lo stato delle conoscenze che nel 1° secolo d.C. si avevano in materia di idrodinamica.
Nel capitolo 35 del testo frontiniano si può constatare che l’idraulico romano del 1° secolo d.C. aveva già intuito che la capacità di trasporto di un canale a pelo libero dipendeva non solo dal dato geometrico della sua sezione ma anche dalla pendenza del canale e dalla resistenza delle sue pareti: la signitia, cioè l’inerzia o pigrizia del canale di cui parla Frontino.
Tutti questi elementi sarebbero nell’era moderna confluiti nelle formule fondamentali di Chezy, Kutter, Bazin ed altri.
Allo stesso modo avevano intuito, per l’efflusso dell’acqua da un foro e questo era il caso della presa dal castello, che la portata d’efflusso dipendeva dall’area del foro, dalla posizione del calice di derivazione e dal carico, cioè dal dislivello della superficie libera dell’acqua nel castello rispetto al baricentro della luce di efflusso.
Nel loro pragmatismo si convinsero che, stabilendo alcune precise prescrizioni tecniche, si poteva far dipendere la portata di efflusso dalla luce esclusivamente dall’area della sezione del modulo di derivazione.
Le prescrizioni tecniche stabilite possono così riassumersi:
a) Si rese obbligatorio che la presa dovesse essere derivata solo dal castello e non dalle pareti del canale;
b)la collocazione del calice ad libram (cap. 105), cioè in modo che il punto più elevato del contorno della luce fosse quasi allo stesso livello della superfice
libera dell’acqua nel castello di derivazione;
c) Stabilizzazione del battente, ossia del dislivello fra la superfice libera dell’acqua nel castello ed il bordo superiore del calice: per questa finalità collocarono nel castello sfioratori di troppopieno, limitando in tal modo le eventuali variazioni del battente.
d) Obbligo della collocazione del cosiddetto tubo legale dopo il calice (cap. 106 - 112), realizzando in tal modo una sorta di omologazione delle derivazioni.
Con queste prescrizioni gli idraulici romani ritennero di avere eliminato in grado sufficiente, sopratutto ai fini fiscali, alcune variabili realizzando così un rapporto di dipendenza “esclusiva” fra portata ed area del modulo di derivazione.
Tale rapporto portata-area venne fissato nelle apposite tabelle approvate dall’Imperatore (cap. 39- 63) che diventarono regole tecniche ufficiali da rispettare obbligatoria
Nota di Dìego Guccione
Sul finire del 1° Sec. d.C. Roma aveva una popolazione attorno a 1.000.000 di abitanti: esistono vari studi su tale tema fra i quali si possono citare quello dì Beloch (800.000), Kahrstedt (1.000.000) e Carcopino (1.700.000).
In questa città, come si può dedurre dai dati riassunti da Frontino nel cap. 78, a parte le concessioni per gli edifici imperiali e quelle per gli usi pubblici (caserme, servizi pubblici. fontane, vasche) l’approvvigionamento idrico per gli usi domestici avveniva prevalentemente dalle fontane e dalle vasche pubbliche e solo in misura minoritaria con concessioni a privati.
Le ragioni di tale fatto sono diverse e possono essere così riassunte:
a) Alcuni quartieri (regioni) della città, come dice Frontino ad esempio nel cap.18, si trovavano a quota superiore a quella dei ripartitori (castelli) dai quali avrebbero dovuto ricevere l’acqua;
b) Parte notevole degli abitanti viveva in catapecchie, ammezzati, soffitte, spesso in condominio, ed in genere in locali non di proprietà presi in affitto o concessi in uso in cambio di prestazioni;
c) Il diffondersi nell’età imperiale di un modello di edilizia popolare organizzato intorno a blocchi di case e botteghe riuniti in isolati (insulae) sempre più sviluppati verso l’alto: era accaduto che i nuovi signori detentori del potere economico si erano appropriati di larga parte delle aree centrali della città costruendovi le proprie comode ed estese residenze relegando di fatto i ceti popolari in quegli alveari umani che erano le insulae condominiali in affitto edificate dagli imprenditori.
In quelle condizioni di promiscuità umana e giuridica era di fatto impossibile un rifornimento idrico tramite concessioni singole.
Queste finiscono per essere richieste e concesse solo per le residenze singole dei signori o per le tabernae a piano terra, per i bagni o le terme dei privati, utenze che erano le sole che potevano essere alimentate direttamente dai castelli.
Per quanto riguarda l’entità delle multe previste dai senatoconsulti o dalla legge in caso di violazioni delle disposizioni legislative, esse sembrano molto elevate.
Un giudizio sull’entità delle multe può essere espresso solo nel quadro complessivo della vita economica della società romana del 1° secolo d.C..
Per una sommaria valutazione, tuttavia, possono essere assunti alcuni elementi tramandatici dalle fonti:
1) La paga di un legionario, e cioè di un soldato “professionista”, era di 900 sesterzi l’anno;
2) Columella dice che 1.000 sesterzi è il prezzo medio pagato per l’acquisto di 1 iugero di terra da destinare a vigneto ed 1 iugero romano corrisponde a circa 0,25 ha. delle nostre misure.
3) Il puro costo di sostentamento per una singola persona è stato valutato in 400 sesterzi l’anno;
4) Il salario a quei pochi operai pagati in denaro e non in merci o cibarie era attorno a 4 sesterzi al giorno. Già questi elementi, da soli, sono sufficienti a fare giudicare pesantissima la multa prevista di 10.000 sesterzi (cap. 127) e oltremodo abnorme quella di 100.000 sesterzi prevista dalla legge popolare riportata al cap. 129.
Una considerazione infine può essere espressa sul capitolo entrate/spese del servizio idrico dell’Urbe.
Sappiamo da Frontino (cap. 118) che le entrate annue ammontavano a 250.000 sesterzi; per quanto riguarda le spese, con una certa approssimazione a motivo dei pochi elementi di cui siamo in possesso, possiamo ragionare e provare a fare le seguenti ipotesi:
a) Le spese per il mantenimento operi miseri salari per percepiti dalla famiglia pubblica, e cioè la squadra di operai addetta alla manutenzione degli impianti di distribuzione idrica, che era costituita da 240 unità (cap. 116), tra cui dovevano esserci molti schiavi, supponendo un costo medio pro-capite annuo di circa 200 sesterzi, si potrebbero quantificare in 48.000 sesterzi;
b) Le spese relative all’ufficio idrico, sia tecnico che amministrativo, composto, come si evince da alcuni passi del cap. 100, da circa 20 unità lavorative, considerando un salario medio annuo di 600 sesterzi, avrebbero gravato sulle casse erariali per ulteriori 12.000 sesterzi.
c) Rimangono fuori dal conteggio delle spese di gestione dei servizio, per impossibile stima, i compensi agli appaltatori per i lavori non in “amministrazione diretta”. In ogni caso, è da ritenersi altamente improbabile che per tali lavori si sia potuto spendere la rimanente somma di 190.000 sesterzi. Sulla base di tale argomentazione, pertanto, possiamo concludere che il “gettito” assicurato dalla gestione del servizio pari a 250.000 sesterzi era certamente una fonte cospicua delle entrate patrimoniali dell’amministrazione romana e ciò giustifica anche il fatto, come ci racconta Frontino al cap.118. che un Imperatore prima di Nerva, Domiziano, si sia potuto appropriare indebitamente di questi soldi.