In origine c’era soltanto un tratto di terra - posto allora ai margini dell’abitato e oggi pieno centro storico - su cui il duca Giacomo II Bonanno Crisafi volle creare una struttura architettonica imponente, perché la magnificenza della sua casata, imparentata con l’illustre dinastia dei principi Colonna, fosse ricordata nei secoli.
Era il lontano 1663 quando Giacomo II ordinò di erigere l’abbazia delle suore Benedettine, per tutti i canicattinesi semplicemente la Batìa. E il suo intento di celebrare la propria famiglia è evidente dallo stemma in pietra raffigurante il gatto, simbolo araldico dei Bonanno, posto sul prospetto della chiesa annessa al convento, completata nel 1716. E dedicata ai santi Filippo e Giacomo, due nomi di famiglia ricorrenti della dinastia baronale, originaria di Pisa.
Questo tempio - da diverso tempo non più adibito al culto e in stato di abbandono - al culmine del suo splendore, era di gran lunga il più sontuosa di Canicattì: un autentico gioiello dell’architettura barocca!
Fino a qualche decennio fa all’interno della chiesa c’erano diversi, sfarzosissimi altari, eleganti arredi e affreschi barocchi, tra cui spiccava uno stucco raffigurante il santo medioevale Bernardo di Clairvaux, appartenente allo stesso Ordine benedettino cui era legato il convento. Ospitava anche un’antica scultura d’alabastro di foggia seicentesca, vivacemente colorata e raffigurante Cristo, poi trasferita nella Chiesa Madre di Canicattì, dove la si può ammirare tuttora.
Oggi il convento e la chiesa della Batìa, pur nell’attuale condizione di rovina, mantengono il fascino di un luogo misterioso, in sospeso tra storia e leggenda, e come tale capace di evocare dei miti che parlano al cuore di ogni canicattinese.
Si tramanda ad esempio che nel convento di clausura cercò rifugio un gruppo di uomini senza scrupoli guidati dal famoso brigante Testalonga, al secolo Antonino Di Blasi da Pietraperzia, definito il terrore della Sicilia.
Testalonga, attirato dalle grandi ricchezze della Batìa, dopo aver buttato giù uno dei portali che collegava la chiesa al convento, fu fermato da un vegliardo dalla barba bianca, che, abbigliato da monaco, con un lungo bastone impediva l’ingresso all’abbazia.
Secondo la leggenda raccolta da Calogero Angelo Sacheli nelle sue Linee di folklore canicattinese (1916) il vecchio monaco altri non era che San Benedetto. L’area in cui sorgeva il convento era un luogo piuttosto isolato, e quindi facilmente assimilabile a misteri ed eventi soprannaturali. Tra il convento e l’altra chiesa sconsacrata di Santa Barbara in un remoto passato molti giuravano di aver incontrato l’inquietante Cirrimbambulu di la Batìa, uno spettro dall’aspetto incerto: alcuni lo descrivevano come un mulo gibboso, mentre la maggior parte parlavano di un uomo gigantesco con un occhio solo, del tutto simile al Polifemo omerico, con le gambe stese tra i tetti delle due chiese, ora accomunate da un comune destino di abbandono.
Lu Cirrimbambulu appariva solo di notte e atterriva i passanti instillando nelle loro menti tremende allucinazioni.
Sempre vicino alla Batìa c’era la vaneddra di l’incantisimi, un angusto vicoletto che si diceva infestato di fantasmi. Moltissimi canicattinesi, impauriti da questi fantasiosi aneddoti, evitavano anche solo di avvicinarsi alla famigerata vaneddra.
A breve distanza dal monastero femminile della Batìa, più esattamente nel piano degli Agonizzanti, era posta la ruota degli esposti, che accoglieva i neonati abbandonati. E si narra che proprio davanti alla chiesa di Maria Santissima degli Agonizzanti la notte apparisse un neonato.
Questo, preso in braccio dagli incauti passanti, si trasformava in una mostruosa creatura dai denti aguzzi.
Domenico Turco
Articolo pubblicato su I Canicattinesi - allegato de "LA SICILIA" del 4 aprile 2004