Con un assiomatico divergere inizia La via breve: la radicale contrapposizione tra l’anonima e centrifuga strada, che conduce nelle aggrovigliate metropoli della contemporaneità, e l’inconfondibile identità culturale della vaneddra - “continuazione corale dello spazio domestico” e “topografia fisica dell’esistenza”- dove converge e si fonde il doppio irreversibile già stato dell’infanzia e della civiltà contadina.
Ed è la vaneddra, quella che l’autore decisamente imbocca nel suo viaggio a ritroso verso quel mondo storicamente concluso, che per lui, però, è ancora vivido vissuto, pulsante autobiografia; per lui, e per chi – come lui nato nei primi anni cinquanta - appartiene all’ultima generazione che può ancora esistenzialmente testimoniarlo.
A guidarlo - dalla Sicilia visibile e omologata del presente a quella mitica e profonda dell’infanzia - è la lanterna magica della memoria: affabulante rievocazione di una condizione umana, sospesa tra il ciclico alternarsi delle stagioni e lo stupore esperienziale dello sguardo infantile. Ma senza nostalgiche edulcorazioni. La restituzione memoriale di Diego Guadagnino non ignora il movimento della storia e le laceranti dinamiche sociali di quegli anni: la fame, il freddo, l’ingiustizia, ma anche -e nonostante tutto –l’ostinata volontà di cambiamento, la speranza di futuro.
In bilico tra saggio e narrazione, La via breve non è solo un poetico requiem, ma la storia di una formazione e di un percorso conoscitivo, le cui radici etiche e sentimentali si intrecciamo ai valori e alle modalità di vita della civiltà contadina, matrice anche delle motivazioni civili e delle ragioni espressive della scrittura.
Con un sentimento, insieme, di pietà e indignazione, l’autore restituisce la sofferta umanità di esistenze marginali e senza storia, talvolta – per la loro paradigmatica tipicità - esemplarmente assunte nella memoria collettiva della vaneddra: dal babbeo al ribelle, al poeta, al malacarne, a tutta la struggente campionatura di una cultura oscillante tra epos e mito, tra coralità di voci e inconfondibile singolarità esistenziale.
Il viaggio della memoria verso il passato - un particolare nostos, questo, molto presente nella narrativa siciliana contemporanea: da Vittorini a Consolo a Bonaviri - si lega strettamente, nella intensa e raffinata testualità de La via breve, a una severa ricognizione dell’intelletto: il costitutivo interferire – sia in questo testo narrativo, sia nella raccolta di poesie Trasmutazione, pubblicata qualche anno fa - di metafora e concetto, di creatività e riflessione. Ma il riferimento concettuale non si traduce quasi mai in esplicita formulazione testuale, rimandando invece a un oscurato – e necessario - spessore di pensiero alla base di immagini e sentire; da qui l’interazione espressiva tra la sognante dilatazione percettiva dell’esperienza conoscitiva del bambino, e l’acuminata consapevolezza intellettuale dell’adulto che sa il finire di ogni cosa.
Non è infatti il presente, e nemmeno la morte individuale, la prospettiva temporale da cui lo scrittore guarda le transitorie forme di ogni vita e di ogni storia; bensì il nulla: ferita nell’essere che continuamente si riproduce.
A ribadirlo, la citazione della grande filosofa spagnola Maria Zambrano posta a epigrafe. E un’epigrafe non è mai casuale, e meno che mai questa: privilegiata chiave di interpretazione testuale per il lettore in quanto esplicita indicazione della prospettiva di sguardo dell’autore.
Rivisitata attraverso un ontologico nulla - “questo sentire è solo prospettiva/ volgente a morte per suo mutamento”, afferma lo scrittore in alcuni significativi versi di Trasmutazione - la vaneddra non è più, per lui, nè il denso e pulsante microcosmo del passato, nè l’utopico punto di riferimento memoriale del presente. Alla luce del simultaneo azzerarsi del tempo dell’infanzia e della civiltà contadina, essa gli appare una viuzza breve e disagevole, un luogo marginale e transitorio del mondo; e il suo nostos, il dissennato viaggio di un Ulisse in cerca di un’isola che più non c’è.
Ma che la scrittura può restituire all’esistenza.
Perchè solo la parola “può tentare il sortilegio” di far rivivere “Itaca inghiottita dal mare”, scrive Diego Guadagnino a conclusione del libro; una parola però di intenso sentire e di profonda consapevolezza, come la sua: “spugna sempre imbevuta di stupore metafisico”.
Diego Guadagnino è nato a Canicattì in provincia di Agrigento nel 1951. Conseguita la laurea in giurisprudenza presso l'università di Palermo, ha intrapreso nella sua città natale l'attività di avvocato, senza tuttavia tralasciare l'innata passione letteraria che nel corso degli anni lo ha visto redattore e collaboratore culturale de "Il punto", una testata che fu punto di riferimento nell'agrigentino dei contenuti della contestazione della fine degli anni Sessanta e sul quale pubblica le sue prime poesie.
In tale contesto scrive "Canicattì Regina dell'uva", una piece teatrale giocata sull'ironia e ispirata ai vistosi effetti prodotti sul piano del costume negli anni Settanta dall'improvvisa ricchezza agricola della sua città natale.
Numerose e costanti le sue presentazioni di libri, di scrittori e di artisti nella sua città, da Leonardo Sciascia, a Nicoletta Agnello Horhy, dal poeta Domenico Turco di cui ha curato "Acque Lustrali", al pittore Salvatore Fratantonio sul quale ha scritto in diverse occasioni.
La pubblicazione di "La via breve", lo rivela alla critica e al grande pubblico come scrittore raffinato e di straordinario spessore nei contenuti. Attualmente collabora alla rivista "Pagine dal Sud".