Allo Spirito Santo l’Immacolata resta fino al terzo giorno del mese di maggio, festa del Crocifisso, chiamata a Canicattì semplicemente Tri di Maiu. Ed è tutta una gara di quei di Borgalino, li brualinara, nel cercare di battere in solennità la festa della Madonna. Anch’essi una volta facevano sfilare la mattina la pittoresca rietina: ed era un brillante successo; alquanto deludente è invece quella ripristinata da alcuni anni. Ma solenne ancora è la processione del pomeriggio con le vare del Crocifisso e dell’Immacolata, che un tempo erano seguite da portatori di lunghi ceri adorni di fiori.
Arrivata la processione alla chiesa di San Francesco, rientra la Madonna, mentre il Crocifisso prosegue il suo cammino verso Borgalino, la cui piazza e le vie risplendono di luci e brulicano di gente, che fa ressa davanti alle baracche per comprare, tra l’altro, il tradizionale torrone, la cubbaita, mentre allegre brigate si riversano nelle bettole per la consueta abbuffata di uova sode e di carciofi lessi, accompagnati da bicchieroni di buon vino paesano. Essi pensano al corpo, ma c’è chi pensa all’anima, quando la processione è ancora in corso, e recita in famiglia un particolare rosario, intercalato da questa preghiera:
Arma mia,
pensa pi tia:
pensa c’hai a muriri.
Munti ribellu
s’avi a ribellari,
lu nemicu 'nfernali
t’avi a scuntrari
e tu ci ha’ diri:
«Vattinni, brutta bestia ‘nfernali,
ca cu mia nun ci hai a chi fari,
ca lu iornu di la Santa Cruci
aiu dittu milli voti: Gesù, Gesù, Gesù...»
E a questo punto una donna risponde: Santa Cruci, aiutatini Vu, cui segue il coro a dire per dieci volte: Gesù; e quindi si comincia di nuovo con Arma mia... e si finisce solo quando il nome di Gesù è stato pronunziato mille volte.
Vicina nel tempo alla festa del Crocifisso è l’Ascensione, la quale cade nel periodo in cui nella messe cala la grana: ecco perché nel passato i sacerdoti si riunivano nella chiesa di San Francesco e, dopo le sacre funzioni, benedicevano dal sagrato le campagne circostanti; dopo di che, il popolo, dinanzi all’abbondante raccolto, esclamava soddisfatto:
Di ccà passà l’Ascensa,
bella grana ca lassà!
L’usanza è tramontata, come del resto è scomparsa quell’altra di attaccare per l’Ascensione alle proprie porte delle caratteristiche crocettine d’erba per tener lontani gli spiriti del male.
Passata l’Ascensione, bisogna arrivare ad agosto per assistere ad alcune feste religiose ricche di folklore. Nella prima domenica ecco la festa di San Calogero, il santo eremita del V-VI secolo, venuto dalla natia Calcedonia a diffondere il Vangelo in Sicilia, dove dimorò in varie località e visse a lungo a Naro, stabilendosi in una misera grotta, incorporata ora in quella chiesa che il 18 giugno di ogni anno è meta di devoti pellegrinaggi. Non a Naro però si spense San Calogero, ma a Sciacca, sul monte Cronio; e il suo corpo riposa ora a Frazzanò, paese in diocesi di Patti e provincia di Messina, dove venne traslato al tempo dell’invasione araba per esservi custodito meglio.
Nero è San Calogero di Naro; di colore chiaro è quello di Canicattì. Rivalità c’è tra le due città sulla superiorità del proprio San Calogero: e a questa guerra di Santi, secondo l’espressione verghiana, partecipa anche Agrigento. Dicono i naresi:
San Caloiaru di Naru
miraculi nni fa un migliaru;
San Caloiaru di Canicattì
miracuti nni fa tri;
San Caloiaru di Girgenti
miraculi nni fa nenti.
rispondono gli agrigentini:
San Caloiaru di Girgenti
li grazii tifa pi nenti;
San Caloiaru di Naru
tifa sempri pi dinaru.
Sostengono i canicattinesi:
San Caloiaru di Canicattì
li miraculi tifa a tri a tri.
Ma segue immediata la provocazione dei rivali:
San Caloiaru di Canicattì
miraculu nni fici unu e si nni pintì.
Tale rivalità denota ancora di più la particolare devozione del popolo verso questo santo taumaturgo. Solenne era la festa che anche in anni recenti a Canicattì gli si celebrava, con banda, processione, giuochi pirotecnici e luminarie; e talvolta anche con serata di musica leggera il giorno successivo. Ora la processione si svolge di pomeriggio, ma fino a quarant’anni fa cominciava di mattina, verso le undici, e si concludeva a mezzogiorno nella chiesa dello Spirito Santo, da dove ripartiva il pomeriggio per ritornare nella chiesa di San Calogero. A organizzare tale festa erano i gessai, li issara, i quali non dovevano essere certamente astemi, se per consuetudine la vigilia della festa, dopo i solenni Vespri, ricevevano dal parroco in segno di gratitudine grossi bicchieroni di vino e ciciri calliati. San Calogero invece riceveva dai fedeli e continua a ricevere pani votivi, sagomati in foggia di parti del corpo umano, a seconda della guarigione operata. Benedetti dal parroco, questi pani vengono poi nella stessa chiesa tagliati a fette e distribuiti ai devoti.
C’era, però, nel passato uno spettacolo, che era in stridente contrasto con la religiosità della festa e con il sentimento di umana pietà: era il cosiddetto giuoco del galletto, che si teneva nella piazzetta di San Biagio. Per la gente era uno spasso, ma per il galletto, sotterrato fino al collo, con quella sua smarrita testolina sporgente, che un uomo ben dato cercava ripetutamente di colpire a morte con un bastone, tra le urla degli astanti, era una tragedia.
(Da "La città di Canicattì" di D. Lodato e A. La Vecchia, Papiro Editrice, Enna 1987)